a cura della Redazione Spazio Interattivo


Comincia il periodo d’oro del calcio italiano. Con l’innesto di qualche giocatore oriundo sudamericano, il commissario unico plasma una nazionale ricca di volontà e di orgoglio, che riesce a superare formazioni tecnicamente più forti come l’Austria e la Cecoslovacchia.

Fu nell’Ottobre del 1932, nel corso del 21. Congresso della FIFA che si tenne a Stoccolma, che i delegati italiani, Avv. Mauro in testa, ottennero la designazione ad organizzare nel 1934 la seconda Coppa del Mondo. La Federazione italiana aveva coronato così un desiderio che già si era rivelato per il Mondiale del ’30, sollecitata nei suoi disegni ambiziosi dal regime fascista che imperava allora nelle nostre contrade. Le strutture calcistiche erano a quei tempi seconde alla sola Inghilterra, la Federazione organizzata su basi funzionali e gli impianti sportivi moderni e numerosi.

Giuste quindi le ambizioni organizzative dell’Avv. Mauro e dell’Ing. Barassi e l’occasione fu ampiamente sfruttata dal regime fascista che aveva compreso la rilevanza politica dell’avvenimento, ed era disposto a rischiare sul piano economico pur di conquistare prestigio in campo internazionale. Significative al riguardo le frasi del Generale della milizia Giorgio Vaccaro, succeduto a Leandro Arpinati alla guida della Federazione in seguito alla querelle fra quest’ultimo e Achille Starace; secondo il Vaccaro, «minimo obbligo morale implicito è di preventivare un deficit finanziario» della manifestazione.

Ma non fu così, nelle diciassette partite disputate furono introitati 3.600.000 lire che corrispondono grosso modo ad 850 milioni odierni, con un guadagno netto di un milione del ’34, qualcosa come 240 milioni attuali. Un successo insperato sul piano finanziario, al quale concorsero diverse componenti come la perfetta organizzazione federale, l’aiuto tangibile dello Stato sotto forma di facilitazioni di trasporto, di esenzioni fiscali e di concessione quasi gratuita degli impianti sportivi. Importante rilevanza ebbe anche la situazione politica di quel periodo, con la raggiunta stabilità interna del regime fascista e la scelta di Mussolini, nei colloqui con Laval, di far parte del fronte comune antigermanico.

Hitler infatti aveva già ottenuto i pieni poteri dopo l’incendio del Reichstag e le mire espansionistiche tedesche convergevano in quel 1934 all’annessione dell’Austria cui si opporrà Engelbert Dolfuss, brutalmente assassinato dai sicari nazisti. L’Europa è già in piena ebollizione: crisi parlamentare in Francia, omicidi politici di Alessandro di Jugoslavia e del ministro degli esteri francese Jean Luis Barthou a Marsiglia, regolamenti interni al partito nazista nella «notte dei lunghi coltelli», ma ciò non impedì a centinaia di migliaia di persone di assistere alle partite della competizione mondiale o di seguirle via radio per tramite della voce appassionata di Nicolò Carosio.

Alla seconda Coppa del Mondo aderirono ben 32 nazioni delle 50 che erano affiliate alla FIFA. Si rese quindi necessaria la formazione di gironi eliminatori atti a selezionare le sedici formazioni che avrebbero preso parte alla fase finale. Scontata l’assenza della Federazione che deteneva la statuetta d’oro, in seguito alle vicende del ’30, e del pari sempre latitante l’Inghilterra ancora in guerra con la FIFA, della quale non riconosceva l’autorità. Del mondo britannico, la sola Irlanda libera partecipò alle qualificazioni, ma fu eliminata da Belgio e Olanda. L’Argentina prese parte alla competizione con una squadra composta in massima parte di dilettanti, per il rifiuto delle società a concedere i migliori elementi alla «seleccion». Le società argentine temevano infatti una nuova spoliazione da parte degli europei come era avvenuto in seguito, alle Olimpiadi di Amsterdam e alla prima Coppa del Mondo. Al seguito di Orsi erano tornati nella terra dei padri Monti, Scopelli, Guaita, Stagnaro, Stabile, Sposito e altri di minore importanza.

Anche il Brasile mandò una formazione minore nella quale erano inseriti autentici fuoriclasse come Leonidas da Silva, il «diamante negro» e Waldemar da Brito, capocannoniere del torneo paulista del ’33 e futuro scopritore di Pelé. In quegli anni il calcio brasiliano era invischiato in una situazione dirigenziale piuttosto fluida. La Confederazione (CBD) regolarmente affiliata alla FIFA, era in continua guerra con le altre associazioni in seguito ai fermenti scissionistici che derivavano principalmente dallo status dei calciatori. Essendo dilettanti questi non avevano vincoli con le società per le quali giocavano e quindi liberi ogni anno di scegliersi il club per il quale giocare.

Questa situazione innescava fenomeni di “dilettantismo marron” e quindi nel ’33 si decise di introdurre il professionismo, ma la disposizione provocò la fuga dei maggiori talenti del paese. Feitico che era un attaccante fenomenale, Domingos da Guia e molti altri scelsero la via dell’esilio ed è questa la principale ragione della scarsa attività della nazionale brasiliana in quel periodo. Dal 1931 al 1933 i brasiliani disputarono solamente due partite per la Coppa Rio Branco con l’Uruguay. La sola sorpresa dei turni eliminatori derivò dall’imprevedibile esclusione della Jugoslavia da parte di Romania e Svizzera. Gli slavi che nel mondiale di Montevideo s’erano ben comportati tanto da classificarsi al terzo posto a pari merito con gli USA, non riuscirono a superare né la Svizzera di Minelli e Abegglen, né la Romania di Juliu Bodola, grande mezz’ala, primatista delle reti nella nazionale rumena ed in seguito ai destini della Transilvania, nazionale ungherese e compagno di Hidegkuti nell’MTK.

Sedici formazioni dunque presero parte alla fase finale. Dodici europee, tre americane ed una africana. Partecipazione massiccia delle nazionali continentali con i favori del pronostico che indicavano chiaramente l’Austria e la Cecoslovacchia come probabili finaliste. Ma anche la Spagna di Zamora e Langara raccoglieva consensi, così come la Germania di Szepan e Conen. Agli azzurri la stampa continentale non concedeva molto in sede di pronostico, non in ragione di pregiudizi di sorta, ma in base a rilievi tecnici di effettivo riscontro. Dopo la conquista del terzo posto alle Olimpiadi di Amsterdam nel ’28, due avvenimenti molto importanti erano venuti a caratterizzare la vita della rappresentativa azzurra. Innanzi tutto l’avvento di Vittorio Pozzo nella carica di Commissario Unico della nazionale.

Dopo le disastrose sconfitte nell’aprile 1929, 0-3 con l’Austria a Vienna ed 1-2 dalla Germania a Torino, Leandro Arpinati diede il benservito ad Augusto Rangone e a Carlo Carcano che aveva collaborato con una misteriosa commissione per l’incontro con i tedeschi. Da tempo si tentava di riportare nell’ambiente della nazionale Vittorio Pozzo, che già era stato dirigente tecnico a Stoccolma nel 1912 ed in seguito aveva fatto sporadiche apparizioni in commissioni piuttosto numerose o in veste unica per un brevissimo periodo nella primavera del 1924. Come tutte le persone poco avide che fanno dell’onestà la prima virtù da osservare, ad un certo punto della vita Pozzo era stato costretto a cercarsi un lavoro per il sostentamento suo e della famiglia. Era funzionario alla Pirelli di Milano e a tutto pensava fuorché tornare nell’ambiente calcistico. Non seguiva neppure le partite di campionato per timore di essere riassorbito dalla passione sempre vigile e dedicava le ore libere dal lavoro alla montagna. Ma le insistenze ebbero ragione della ritrosia e a condizioni compromissorie che gli permettevano di mantenere il lavoro accettò di interessarsi della nazionale. Pensava ad un incarico di pochi mesi ed invece il suo mandato durò quasi vent’anni. Un record difficilmente ripetibile.

Vittorio Pozzo è stato senz’ombra di dubbio il miglior tecnico fra i tanti ai quali è stata affidata la guida della nostra massima rappresentativa calcistica. Nelle rievocazioni dedicate agli azzurri dai grandi soloni, si è tentato di sminuirne i meriti e le qualità. Brera addirittura ce lo rappresenta malevolmente da vecchio, costretto a farsi radere da un collega e tende più a sottolinearne i difetti che le virtù, tratteggiando il carattere accidioso e vendicativo. Altri tentarono una assurda interpretazione, ascrivendo gli innegabili successi più alle macchinazioni del regime che alle sue capacità di conduttore di uomini. In realtà Vittorio Pozzo, al di là dei tratti del carattere chiuso e impenetrabile era per quei tempi un tecnico all’avanguardia, informato minuziosamente del calcio di ogni nazione, studioso attento della psicologia degli uomini da mandare in campo e capace di osservare il calcio in proiezione dinamica ben oltre gli schematismi che tanto piacciono agli strateghi da tavolino.

Seguiva e studiava i progressi tattici del gioco e quest’aspetto della personalità passava per intollerabile presunzione in un paese che ha sempre prestato eccessiva attenzione ai praticoni e ai venditori di fumo. Certo Pozzo credeva profondamente nella disciplina e nell’amor di patria e per questo era un uomo in perfetta sintonia con il suo tempo, ma i successi del calcio azzurro di quegli anni nascono anche dalle scelte tecniche precise, dalla predilezione per elementi validi sul piano del gioco ma adeguatamente dotati di carattere, di volontà e di voglia di vincere.
Altro evento di grande importanza nella vicenda azzurra di quel tempo la vera e propria razzia di talenti calcistici nel grande serbatoio latino-americano. Sfruttando con pragmatismo il riconoscimento della doppia nazionalità agli emigranti e ai discendenti, il calcio azzurro si trovò a poter disporre di autentici fuoriclasse che consentirono alla nostra rappresentativa un notevole salto di qualità. Già negli anni venti aveva giocato in nazionale Julio Libonatti, che ancora oggi detiene il record delle marcature fra i «reimpatriati» e con l’avvento di giocatori come Monti, Orsi, Guaita ecc. ecc., Pozzo si trovò fra le mani un materiale di prima qualità da plasmare con i prodotti del vivaio che in quel periodo rese elementi di grande personalità tecnica. I primi mesi di lavoro di Pozzo fruttarono una serie di risultati di rilievo e culminarono con il primo grosso successo della nostra rappresentativa con la conquista della Coppa Internazionale alla quale aderivano Austria, Cecoslovacchia, Ungheria e Svizzera. Con la vittoria per 5-0 (3 reti di Meazza) sul campo del Ferencvaros a Budapest, gli azzurri conquistarono la preziosa Coppa Svehla in cristallo di Boemia, ma non fu quello l’unico confortante effetto della esaltante affermazione. Pozzo aveva lanciato in prima squadra un nugolo di giovani elementi che formeranno più avanti la solita struttura della nazionale.

Oltre al già celebre Orsi che debuttò l’1 Dicembre del 1929 con Bertolini e Costantino, Pozzo concesse via via fiducia ad elementi come Meazza, Ferrari; Monzeglio che ritroveremo fra gli artefici delle conquiste mondiali degli azzurri. Altro evento importante nella costruzione del mosaico, l’arrivo in Italia di Luisito Monti, il centromediano del San Lorenzo, che al ritorno da Montevideo era stato accantonato come una scarpa vecchia. Luisito chiamato alla Juve da Cesarini era notevolmente appesantito dall’inattività e lasciò interdetti quanti lo andarono ad accogliere a Genova. Si allenò da solo sottoponendosi ad un durissimo regime alimentare ed in poco tempo riuscì a togliersi di dosso la zavorra che lo opprimeva. Quando Pozzo lo vide giocare capì che quello era il suo uomo, capì che quella carica di aggressività, di volontà dirompente era quanto di meglio potesse trovare per il ruolo di centromediano. Monti sostituì Attilio Ferraris nell’incontro Italia-Ungheria del 27 Novembre 1932 vinto dagli azzurri per 4-2, e proprio alla vigilia del mondiale Pozzo reinserì nella rosa «er core de Roma» quale possibile sostituto del mediano Pizziolo, molto dotato sul piano tecnico e più preoccupato della coordinazione stilistica che dell’efficacia negli interventi difensivi.

Italia e Cecoslovacchia dunque a disputarsi la preziosa statuetta d’oro allo Stadio Nazionale dì Roma il 10 giugno. Cecoslovacchi con: Planika; Zenisek Ctyroky; Kostalek Cambal Krcil; Junek Svoboda Sobotka Neyedly Puc e azzurri confermati nella formazione che aveva battuto l’Austria, con Ferraris IV mediano nell’inquadratura che nella seconda partita con la Spagna aveva dato a Pozzo la certezza di aver trovato una pattuglia battagliera e volitiva, ben decisa a conquistare la vittoria a costo di ogni sacrificio atletico. Ancora una volta gli italiani partivano battuti dal pronostico della grande stampa che assegnava allo squadrone boemo un tasso di classe nettamente superiore. Hugo Meisl, che solitamente diceva «il calcio è il mio pane» era più cauto nel prevedere il risultato, ma sottolineava la grande condizione che i «rossi» erano venuti acquistando nel corso del torneo.

Il primo tempo terminò a reti inviolate, gli azzurri stranamente innervositi e impacciati, quasi timorosi di fronte al traguardo più importante. Planika aveva sfoderato tutta la sua classe per impedire ad un paio di palloni di Meazza e Schiavio il fondo della rete e la sicurezza dell’estremo difensore rese ancor più prec aria la consistenza morale dei nostri ai quali tutto appariva in quei momenti estremamente difficile. Al 71′ le cose si complicarono ulteriormente, poiché i cechi che per tutta la partita mantennero una olimpica tranquillità, passarono in vantaggio con una diabolica palla tagliata di Puc, scagliata dalla posizione d’ala.Paradossalmente fu l’episodio che scrollò l’apatia degli azzurri, il nervosismo sparì d’incanto lasciando spazio ad una squadra che con il passare dei minuti, ricomponeva le sue file e ritrovava la misura nelle manovre offensive. Schiavio sfinito andò ad occupare la posizione d’ala e Guaita passò al centro, Pozzo si portò dietro la rete boema per incitare i suoi alla voce e undici minuti dopo il pareggio era cosa fatta grazie ad un tiro a mezz’altezza di Orsi, battuto da una ventina di metri e che Planika non riuscì nemmeno a sfiorare. Al 5′ della prima frazione supplementare Angiolino Schiavio produsse l’ultimo guizzo della sua carriera azzurra e a coronamento di una manovra ispirata da Ferrari per Orsi, la palla smistata a Guaita fu spedita al centro dove il bolognese la scagliò alle spalle di Planika da sette-otto metri. Fu una mazzata che i cechi non s’attendevano visto il maggior logorio cui erano stati costretti gli italiani, un colpo da KO decisivo per il morale di quella grande squadra che non riuscì a ripetere le manovre ubriacanti che nel corso della prima ora di gioco avevano tenuto in soggezione i padroni di casa.

Nel giudizio complessivo sulla vittoria dell’Italia si scatenò una violenta caccia alle streghe. Specialmente la stampa francese parlò di intollerabile atmosfera che aveva condizionato l’operato degli arbitri, di fantomatiche pressioni sulle ambasciate per piegare le velleità degli avversari deputati ad incontrare gli azzurri.Certo al di là delle tesi dei transalpini la seconda edizione della Coppa del Mondo confermò la necessità di tutelare almeno fino ad un certo punto la rappresentativa di casa per ragioni comprensibili di cassetta. E questo cinico realismo si è ripetuto in forma più o meno vistosa ad ogni edizione di Coppa del Mondo. Comunque ci sembra importante sottolineare che se qualche favoritismo concorse al trionfo degli azzurri, non si trattò certamente di agevolazioni in sede di sorteggio. Per vincere il titolo non si avvantaggiarono con alcun accoppiamento di comodo, come è più volte successo in seguito. Austria Spagna e Cecoslovacchia godevano in quel periodo di grande reputazione e gli italiani dovettero soffrire parecchio per averne ragione, la strada di altre formazioni Cecoslovacchia compresa fu certo più agevole.

Al termine della competizione un giornale specializzato pubblicò la formazione ideale del mondiale. Eccola di seguito: Zamora (Spagna); Monzeglio (Italia) Quincoces (Spagna); Ferraris IV (Italia) Smisti (Austria) Lecue (Spagna); Lafuente (Spagna) Meazza (Italia) Langara (Spagna) Neyedly (Cecoslovacchia) Orsi (Italia). Indicò anche i migliori cinque elementi per ruolo ed è significativo il fatto che tutti gli italiani fossero compresi in tale graduatoria. Combi e Monti erano terzi alle spalle di Planika e Muguerza, Allemandi secondo, Schiavio terzo dietro Sindelar, Guaita secondo. Un riconoscimento ulteriore al buon lavoro di Pozzo e ad una squadra che giocava il metodo, cioè mediani sulle ali e terzini alle spalle, l’uno a spazzare, Monzeglio, l’altro a contrastare e a battere lontano l’insidia, Allemandi. Fu una coppia efficace e decisa, chiusa alle spalle dal freddo e continuo Combi, coraggioso e deciso in ogni frangente. Con la linea mediana, Ferrari IV; Monti, Bertolini, l’intero reparto arretrato appariva come un campo minato, dove era assai difficile e pericoloso avventurarsi, un vero e proprio bunker composto da giocatori aggressivi e decisi. L’attacco si avvaleva del genio di Peppin Meazza, un grande di tutta la storia calcistica italiana, coordinatore del gioco, fantasioso, intelligente, nato come centravanti e quindi anche dotato di notevoli capacità di stoccatore. Ferrari l’altra mezzala era lento ma razionale e metodico, preciso nel dettare la manovra. Al centro Angiolino Schiavio, strenuo combattente, mai domo, tutto cuore e volontà sempre in attesa della palla favorevole e sulle fasce Orsi e Guaita, l’uno classico esponente della scuola argentina, furbo, opportunista grande palleggiatore, l’altro più potente giocava leggermente arretrato e scatenava lunghe fughe palla al piede che si concludevano immancabilmente con un tiro violento e preciso. L’organizzazione fu perfetta e ad essa arrise un notevole successo finanziario, i numerati per la finale costavano cento lire del tempo. Ogni azzurro ebbe in premio 20.000 lire: a quei tempi si poteva acquistare un appartamento a Milano…