a cura della Redazione “Click Music” e “Elle Com”


C’è una scena in Straight No Chaser, il documentario di Charlotte Zwerin prodotto da Clint Eastwood e dedicato alla vita di Thelonious Sphere Monk, che è la sintesi dell’arte tutta di questo musicista imprendibile, indomabile e infinito. La band sta suonando Evidence, durante l’assolo del sassofonista Charlie Rouse, Monk si alza e inizia a ballare. Una danza goffa, derviscia. Gira su se stesso Monk, un omone di cento chili che si avvita felice come un bambino-farfalla sul proprio baricentro. Poi ritorna al piano e lo martella, i piedi tengono il ritmo, le gambe volano disarticolate. È l’estasi, è la scossa elettrica. È il jazz. È Monk. Monk che suona sé stesso e che usa il pianoforte semplicemente per dare voce a tutte le note, montagne di note, che gli vorticavano tra il cuore e i i cappelli dalle fogge bizzarre.

Sono quarant’anni che Thelonious Melodious se n’è andato, stroncato dalla follia e da un ictus. Eppure balla tra noi e ci fa ballare, ancora. Ogni composizione di Monk, ogni standard che interpretava, perfino le ballad possiedono talmente tanto ritmo da somigliare a irresistibili figure animate. Così, in queste sue partiture sbilenche, poggiate all’apparenza sul nulla, entrano ed escono pezzi di cinema in bianco e nero, Stanlio e Ollio, fumetti, cowboy da saloon e coristi che celebrano la grandezza del Dio delle sale da ballo. Musica per gli occhi, un film che si dipana.

La musica di Monk è puro divertimento anche quando lacera, anche quando graffia l’anima. Musica buffa e bellissima, un inno costante alla libertà. Sembra uno scherzo quella musica, perennemente in bilico, che ecco, ecco ora sta per deflagrare. Ecco, ora i suoni si disintegrano e sarà silenzio. Ecco, ora Melodious stecca. Invece no. Un colpo di reni e la rincorsa tra accordi riprende perfetta e fulminante “come un lungo respiro che si alza”.

Non è neppure necessario un anniversario per celebrarlo, perché Thelonious è sempre così presente, possente, ingombrante come una specie di tatuaggio nell’anima. Ingombrante e tenerissimo. Come in Rewind & play il documentario firmato quest’anno dal regista franco-senegalese Alain Gomis che ha recuperato un’intervista del 1969 di Monk a una tv francese, ma soprattutto il dietro le quinte di quell’apparizione “straziante”. Il pianista resta per ore sotto le luci dello studio, non capisce una parola di quanto gli chiede Henri Renaud, conduttore dello show. Al termine del calvario televisivo, guarderà il nulla, completamente bagnato dal sudore. E invece l’artista visuale spagnolo Javier Arrés, gli rende omaggio trasformandolo in un’illustrazione in movimento, una sorta di Gif caleidoscopica, dal titolo Theloniopolis: c’è lui al centro di una metropoli a fare musica mentre le sue note cambiano lo skyline. 

Quella città è New York naturalmente, lo status di questo colosso nato il 10 ottobre del 1917 in North Carolina ma cresciuto a San Juan Hill, sobborgo per immigrati della Grande Mela. Cresciuto facendo a botte con le bande di ragazzini portoricani. Thelonious Monk, pronipote di due schiavi, figlio di una cameriera e di un bracciante. “Poi una signora ci regalò una specie di piano – raccontò il musicista – Pensai che non volevo sprecare quel dono. E imparai a suonare”. Iniziò così. Con il pianoforte in cucina. Cominciò in chiesa, seguendo l’amatissima madre Barbara che pregava e cantava e finì con l’incontro tra Monk e l’organo. Laurent de Wilde che ha scritto Monk Himself, brillante e appassionata biografia con prefazione di Enrico Pieranunzi (Minimum Fax 2007) spiega come “l’incredibile gioco di piedi di Thelonious” sia mutuato proprio da quell’esperienza. “Dalla chiesa Monk non ha tratto il suo stile, ma piuttosto l’anima della sua musica”. Così è. Così sia.

Anni 40: New York ondeggia a caccia di nuove mode, qualcosa che vada oltre lo swing, lo superi a sinistra, gli tagli la strada. Monk si allena al Minton’s Club di Harlem, instancabilmente. E’ più che una palestra quel locale: è un ring, un quadrato per musicisti-pugili. Rimane in sella chi ha il fisico e il tocco. Thelonious possiede entrambi e picchia sui tasti trasformandoli in un’orchestra, un vulcano, un calderone in ebollizione. L’America è in guerra e chi resta ha voglia di ballare, di osare, di dimostrarsi vivo. E ci sono suoni, storie che ora corrono più veloci perfino degli accordi. C’è Charlie Parker, ovvio, ma anche un trombettista tosto, uno che parla di diritti, uno che ha scritto un pezzo intitolato Bebop. Si chiama Dizzy Gillespie che dilì a poco, avrebbe incrociato Monk. Fu una storia breve la loro, ma servì al pianista per entrare nel salotto buono e maledetto del jazz.

Bebop allora. Il nuovo maestro del sound che riempie di adrenalina le notti newyorkesi è lui, Thelonious Sphere: occhiali scuri, cappelli assurdi, giacche grigie ed un anello d’oro al mignolo. Il monaco folle ed elegantissimo, il marito di Nellie. In questa storia la moglie di Monk ha un posto importante, cruciale. Lei prepara frullati, valigie, tieni i conti, organizza l’esistenza disordinata di Thelonious. Lei la musa, la casa e la culla. Ci saranno droghe, draghi, alcool nella vita del pianista ma nessun’altra come Nellie. Si erano conosciuti quando lei aveva 12 anni e lui 16. “Ci guardammo, ci riconoscemmo, anni dopo lui ricordava perfettamente il mio vestito da bambina”, ha raccontato la signora Monk a Robin D.G. Kelley che ha studiato per 16 anni l’opera e la vita dell’artista dando alle stampe “Storia di un genio americano”, 800 pagine, biografia monumentale tradotta e ristampata più volte in Italia (ancora) da Minimum Fax Sarà lei a tenergli la mano il 17 febbraio del 1982, l’ultimo giorno.

Bebop, dunque. Ma non solo. Perché Monk è in grado di attraversare pentagrammi e stili con una tecnica mirabile e una devozione pianistica da operaio e filosofo. Nello stesso tempo può suonare, fumare, usare un fazzoletto per asciugarsi il sudore e segnare con “mani da rastrello” gli 88 tasti del piano. Dal primo contratto con la Blue Note ai successi con la Columbia, la storia musicale di Monk è un’irresistibile ascesa. Lenta, ma inesorabile. Agli standard preferisce le proprie composizioni, pezzi marchiati da un tono inimitabile: il suo. Pezzi che ancora oggi sono cosa viva, materia che pulsa. E sorride obliqua. Dalla malinconia di Ruby my dear al calor bianco di Well You Needn’t, dall’affresco urbano di ‘Round Midnight alla vorticosa bellezza di Evidence. Sono composizioni che sembrano arrivare da un altro mondo. Sono giochi, boutade fantastiche, sono corde trasparenti per far inciampare la gente. E quindi ecco i fumetti che si rincorrono in Four in One e le aritmie di clacson e motori di Little Rootie Tootie dedicata al figlio. Monk scrive, segna tutto in un quadernetto che porta nella tasca del cappotto. E condivide con gli amici ed i colleghi. Art Blakey soprattutto, batterista sbruffone, muscolare, furbo. E poi c’è la schiera infinita di sassofonisti, un po’ specchio, un po’ riverbero, un po’ molla. Maestri e fratelli: Coltrane il treno, Sonny Rollins il loquace, Coleman Hawkins il padre, Gigi Gryce il timido, Gerry Mulligan l’imperioso e più di ogni altro Charlie Rouse, il complice. Il sax di Melodious.

Ci sono uomini e donne a marcare questa storia. Uno è Orrin Keepnews, giornalista, diventato produttore e mentore di un’etichetta nuova di zecca: la Riverside. Orrin non si spiega perché tanto talento sia quasi invisibile al grande pubblico. Così nel 1955 prova la carta della contrapposizione. Come scrive Laurent de Ville “il lunare Monk alle prese con il solare Duke”. Lo strappa alla Prestige riscattandolo per 108 dollari, lo mette sotto contratto. Il primo disco è Thelonious che omaggia Ellington. Bingo. Il cerchio che si chiude. Perché il ragazzo di San Juan Hill è il primogenito audace del Duca. L’unico in grado di traghettare il pianismo di Ellington (e tutto lo swing) verso la matematica pura, l’unico capace di imprimere una simmetria perfetta anche agli intervalli più spigolosi. Così, il grosso negro col cappello inizia a far breccia. Due anni dopo arriva il capolavoro Brilliant Corners, opera suonata all’unisono. Niente interplay. Un solo fiato, un’unica voce. Da brividi. Marmo fluido. Una follia collettiva: Max Roach che si invaghisce dei timpani, Monk che trova una celesta in studio e s’impunta per ficcarla nel disco. Un capolavoro. Il successo. Che anni, che America, che straordinarie benefattrici. Anche Monk, come Charlie Parker, entra nelle grazie della baronessa Pannonica de Koenigswarter, Nica per gli amici, appassionata di jazz e di gatti. Sarà un’amicizia epica e totale la loro. Definitiva. E poi Teo Macero, capo della Columbia e compositore, un bianco intelligente, che decide di produrlo. E’ l’apice della carriera di Monk. Sono gli anni ’60 e il mondo è cambiato. Così cambiato da poter accogliere Monk’s Dream il suo album più venduto, così cambiato da meritarsi Monk sulla copertina di Time. Ci sono tour, ora, e fotografi, e gente che fa la fila per ascoltarlo, vedere da vicinol’ultimo copricapo di Thelonious.

Chissà qual è il sogno di Thelonious negli anni 70, chissà se è un incubo o una febbre covata, tenuta a bada, e che esplode. Perché a un certo punto l’intero microcosmo di Monk, quello che l’artista ha costruito accordo dopo accordo, serata dopo serata, session interminabili e lavoro durissimo, si sgretola. All’improvviso. Il pianoforte smette di esistere. Melodious esce ed entra dalle cliniche psichiatriche. Bipolarismo è la diagnosi. Lui si mette a nanna, sotto sale, si iberna, sceglie il letargo. Via il cappello. Le dita rattrappite, la voce serrata in gola. Il distacco tra Monk e il mondo, all’inizio una fessura, diventa una voragine. Si rifugia per un decennio nella casa di Nica, a Weehawken, New Jersey. Nella stanza ha uno Steinway a coda che non tocca, il contrario di quanto era accaduto a Bud Powell che, pazzo e disperato, aveva continuato a disegnare sui muri del manicomio i tasti in bianco e nero.
La musica è finita. Monk, il gran sacerdote del bebop, è un pesce grande e misterioso, arenato tra le pieghe di un mare buio, senza onde. Un mare calmo, fetido e mortale.

Un giorno disse: “Il rumore più forte del mondo è il silenzio”. Si sbagliava. Il rumore più forte del mondo è la risata di una donna, è il battito del cuore di un bambino su un’altalena, è il respiro di un gigante del jazz che prende la rincorsa, ride, tocca Dio, balla, e dopo 40 anni è ancora qui. A farci girare la testa. Ingombrante. Inevitabile. Monk, in una parola. 

Fonte : “CulturaTiscali” di Redazione Digital – a cura di Daniela Amenta