di Felice Nicotera



L’arte e l’anima napoletana.


Una mostra al museo di Capodimonte di Napoli su Vincenzo Gemito, ricorda quest’artista folle, geniale, tormentato, che ha così tanto appassionato per le sue originalissime opere e per la sua vita. 


GEMITO : DALLA SCULTURA AL DISEGNO
 
L’esposizione, in mostra dall’11 settembre al 15 novembre 2020, segue in ordine di tempo quella parigina al Petit Palais  Gemito. Le sculpteur de l’âme napolitaine, vuole riassumerne le rivelazioni, organizzandole però diversamente intorno ai suoi esordi, ai busti, alla gloria, agli amori (la francese Mathilde e la napoletana Anna), alla follia e alle ultime opere. “Addolorato dal lutto, ferito dalla demenza, Gemito realizzò nei suoi ultimi anni una serie di opere sorprendenti, un nuovo ritorno all’antico, ma come stranamente attraversato dalla modernità delle secessioni artistiche dell’inizio del XX secolo, una sorta di manierismo che fa pensare a Vienna, a Monaco e che anticipa la rottura italiana della pittura metafisica e in particolare di Gino Severini – conclude Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte – Come tutte le mostre dedicate a Gemito, passate e future, anche queste due insistono sul genio tecnico di Gemito, un genio che le repliche tardive dei suoi bronzi che invadono il mercato hanno cancellato, per non dire umiliato”.

Vincenzo GEMITO (1852-1929) è il più grande scultore dell’Ottocento. Un artista ribelle e sensibilissimo alla realtà. “Un genio solitario” e romanzesco, un puro talento napoletano che “non può essere compreso senza Napoli, al di fuori di un destino antico, designato dalla notte dei tempi”.

Nacque a Napoli il 16 luglio 1852 e da neonato fu deposto nella ruota dello Stabilimento dell’Annunziata e adottato da Giuseppina Baratta, il cui secondo marito, fu il muratore “Mastro Ciccio” tante volte raffigurato nella produzione plastica del Gemito. Di indole irrequieta e prepotente, egli trascorse un’adolescenza povera e turbolenta, amico e coetaneo di Antonio Mancini, anche nelle precoci esperienze artistiche. Frequentò le botteghe di due scultori: Emanuele Caggiano e Stanislao Lista.
Risale al 1868 il suo esordio alla mostra della Società promotrice di belle arti di Napoli dove espose il Giocatore.

In quest’opera – acquistata da Vittorio Emanuele II per le collezioni di Capodimonte – adottò il modellato pittorico e vibrante per suggerire la concretezza dell’esperienza visiva e la spontaneità della realtà vernacola napoletana. Il Gemito confermò queste novità formali nel Ritratto del pittore Petrocelli plasmato intorno al 1869, a riprova dell’intolleranza verso la codificazione accademica dell’arte scultorea.

Insieme con altri artisti il Gemito prese in affitto uno studio dove presero forma le delicate testine datate 1870-72 e conservate a Napoli, mirabili per vivacità di sguardi e naturalezza di atteggiamenti, quali Moretto, Scugnizzo e Fiociniere, Malatiello e Fanciulla velata ; queste sculture vennero eseguite in terracotta, mezzo plastico congeniale all’interpretazione realistica del soggetto, per le libere variazioni di piani e le mobili vibrazioni luminose.

Nel 1873 conobbe Matilde Duffaud, che divenne sua convivente nonché modella nel nuovo studio sulla collina del Mojarello, a Capodimonte. Dello stesso anno sono i busti bronzei raffiguranti D. Morelli e G. Verdi e quelli in terracotta raffiguranti F.P. Michetti e Totonl’amico mio. Quest’ultimo fu acquistato dal pittore spagnolo Mariano Fortuny allora residente a Portici, del quale il Gemito nel 1874 eseguì il busto per la tomba al cimitero del Verano a Roma. A questo periodo risale anche il Ritratto di Guido Marvasi , figlio del prefetto napoletano Diomede, tra i primi mecenati dello scultore e collezionisti delle sue opere.

Nel 1876 trasferì lo studio nei pressi del Museo nazionale, che frequentò da allora regolarmente copiandone le sculture di Pompei ed Ercolano, in cui trovava un ricco patrimonio di concrete soluzioni creative. L’anno seguente partecipò all’Esposizione nazionale di belle arti di Napoli e al Salon parigino dove, presente per interessamento del noto mercante Alphonse Goupil, ottenne buon successo di pubblico, in particolare, per il Gran pescatore o Pescatore napoletano, in bronzo a grandezza naturale.

Il Pescatore napoletano – ripresentato all’Esposizione universale parigina del 1878, dove il Gemito consolidò con una medaglia la notorietà presso i Francesi, e in seguito più volte esposto in Italia e all’estero riportando numerosi premi – appare in bilico su uno scoglio nell’atto di trattenere sul petto dei pesciolini guizzanti e mostra un’energia sul punto di prorompere, come attestano i segni del cesello creanti continui passaggi chiaroscurali.

Per gli studi sulle diverse versioni del tema del pescatore, dai primi anni Settanta, di sicuro la tempra istintiva, la gioventù parimenti diseredata e la formazione verista contribuirono al calore sensuale e sentimentale nel narrare l’esperienza della realtà.
Le tante immagini di fanciulli – nella produzione tarda gli scugnizzi divengono arcieri – risentono inoltre di un particolare vagheggiamento dell’arte ellenistica che le porta fuori della cronaca, garantendone l’atemporalità e fornendo un filtro tra ispirazione e forma definitiva, ben lontana comunque dal riproporre fedelmente gli spunti antichi e da retoriche declamazioni.

Trasferitosi a Parigi nel 1877 ottenne il successo mondano ma non il benessere economico, per un’incauta amministrazione. Eseguì il Ritratto di Cesare Correnti commissario italiano all’Esposizione universale parigina del 1878.
Al Salon del 1878 presentò due busti in bronzo: quello ricoperto d’argento del pittore G. Boldini, allora residente a Parigi, e quello di J.-B. Faure, cantante e collezionista degli impressionisti; al Salon seguente, dove ottenne la medaglia di terza classe, espose il Ritratto del dottor Landolt e quello del pittore Federico de Madrazo ; a quello del 1880 espose il ritratto in bronzo di Paul Dubois, scultore e direttore dell’École des beaux-arts, e meritò la medaglia di seconda classe per la statuetta bronzea a figura intera Ritratto di G.L. Ernesto Meissonier, nuovamente esposto nel 1880 a Torino alla IV Esposizione nazionale di belle arti insieme con il busto bronzeo di Amedeo d’Aosta, duca di Genova, commissionatogli dalla colonia italiana a Parigi e conservato nel palazzo reale di Napoli.
Tornato definitivamente a Napoli all’inizio del 1880, il Gemito lavorò senza tregua per più di un anno all’Acquaiolo, dalla posa sbilenca e malferma per un gioco di membra in movimento eppure statiche. Rilettura del Fauno danzante di Pompei e riprodotta in innumerevoli esemplari, l’opera fu composta a ricordo della città partenopea su commissione, tramite Filippo Palizzi, di Francesco II di Borbone, l’ex re di Napoli esule a Parigi.
Morta precocemente Matilde per tisi nell’aprile del 1881, il Gemito si ritirò per alcuni mesi a Capri disegnando molti ritratti dal vero, sulla scorta dei quali modellò Rosa (esposta al Salon parigino del 1882). L’anno seguente sposò Anna Cutolo, detta Nannina, la modella di Domenico Morelli; e nel 1885 nacque la figlia Giuseppina: moglie e figlia saranno entrambe ispiratrici di opere del Gemito (quali il Ritratto di Anna Gemito, del 1886, in terracotta e creta: Roma, Galleria comunale d’arte moderna e contemporanea). Nel 1883 fu esposto alla Promotrice napoletana il bronzo Il filosofo. 
Si manifestarono allora i sintomi di un esaurimento psichico (causato dalle vicende personali, dall’insoddisfazione dei risultati raggiunti, dall’ossessiva ansia di superare se stesso) che lo portò al ricovero. Fuggito nel 1887 dalla casa di cura Fleuret, si segregò nell’abitazione di via Tasso per trascorrervi, tra deliri, digiuni e allucinazioni, circa un ventennio, nel corso del quale si dedicò prevalentemente alla grafica, alternando momenti lucidamente creativi a periodi di solitaria alienazione.
Nel contempo il successo internazionale dell’artista era ormai solido e accompagnato da numerosi riconoscimenti ufficiali.
Morte la madre e la moglie, il Gemito riprese la vita pubblica nel 1909: per consegnare il Pescatorello, richiestogli per la regina Margherita da Elena d’Orléans, duchessa d’Aosta, e per esporre, su incitamento di questa, alla VIII Biennale di Venezia i disegni di ambiente popolare napoletano che ne riconfermarono il successo mondiale.

Allo scorcio del secolo appartiene la produzione incentrata sulla figura femminile: ritratti di popolane, le “zingare”, riprese da sole o con bambini nelle attitudini quotidiane e nella vitale gestualità (Maria la zingara, Nutrice, Carmela. Inoltre eseguì numerosi disegni famigliari e autoritratti di grande potenza simbolica e passionale (Autoritratto con Matilde Duffaud, 1880-81, sanguigna acquerellata, cui seguiranno quelli più tardi con la barba fluente e l’aspetto da profeta michelangiolesco, sia grafici sia plastici (Autoritratto, del 1921, in bronzo).

Negli anni il talento dell’artista, nutrito dal tormento quotidiano per raggiungere la pienezza dell’espressione, trova nel disegno il personale appagamento creativo, dimostrando non solo la padronanza della forma, ma anche la comprensione del fenomeno luminoso, la sapienza del gioco dei valori e dei toni perseguita con le tecniche più varie (matita, penna, acquerello, pastello).
Del 1910 sono le opere Sorgente e Giovinezza di Nettuno; del 1911, Medusa . Al 1914 e al 1918 risalgono Inverno, Tempo, Vasaio, Fanciulla greca, Sibilla Cumana, Sirena, opere con cui porta una nota di prezioso estetismo nel nuovo clima simbolista.
Dal 1911 al 1924 partecipò a varie esposizioni e negli anni 1920-26 lavorò intorno al tema di Alessandro Magno, protagonista di tante sue visioni. Al 1926 risalgono le sue ultime opere: Sibilla, in argento e Ritratto dell’attore Raffaele Viviani, in cui sottile è la resa psicologica al di là del realismo fisiognomico conseguito grazie alla tecnica esperta.
Negli ultimi anni, si diede all’oreficeria in oro e argento, e tali sue opere, intricate e delicate, sono oggi molto ammirate.

Morì a Napoli il 1° marzo 1929.
Nel 1952 l’Italia emise un francobollo per commemorarne il centenario della nascita.


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