di Felice Nicotera


Italiani, borbonici e briganti 1860-1870

La campagna militare per il Mezzogiorno che concluse la crisi del Regno delle Due Sicilie, iniziò nel settembre 1860, dopo il successo della spedizione garibaldina e si protrasse per un decennio. Un decennio cruciale descritto dal saggio del prof. Carmine Pinto, che arricchisce la conoscenza di quegli eventi, frutto di lunghe e rigorose ricerche e rivoluziona interpretazioni finora date per acquisite.

Il libro, pubblicato da Laterza, analizza la guerra che sancì la fine del regno delle Due Sicilie e il successo dell’unificazione italiana, sottolineando la complicata vita del Mezzogiorno nella neonata Nazione risorgimentale. Un decennio complesso, fatto di lotta civile, politica, sociale e criminale, che coinvolse re e generali, politici e vescovi, soldati e briganti, intellettuali e artisti. Nello scontro sanguinoso, il brigantaggio, che non fu soltanto la sfida allo Stato di bande criminali o l’eroica resistenza meridionale al colonialismo sabaudo, dominò gli immaginari, determinando il valore brutale del conflitto, ma anche l’eco nel dibattito pubblico italiano ed europeo. Non fu uno scontro locale, perché coinvolse attori politici e militari di tutta la penisola e d’Europa, ma non fu neppure una guerra regolare, perché si sviluppò prima come tentativo di insurrezione generale, poi come una guerra di bande dal profilo politico – criminale. I briganti e i combattenti italiani si sfidarono nelle valli e nelle montagne, in un conflitto cupo e violento del tutto privo dei fasti risorgimentali. Si mescolarono la competizione politico – ideologica tra nazionalismo unitario e autonomismo borbonico; il conflitto civile tra liberalismo costituzionale e assolutismo; la lotta tra fazioni, gruppi sociali e formazioni criminali nelle città e nelle campagne.

Tra le cause principali del brigantaggio post-unitario, oltre alla delinquenza comune, si possono elencare: il serio peggioramento delle condizioni economiche; l’incomprensione e l’indifferenza della nuova classe dirigente per la popolazione da loro amministrata; l’aumento delle tasse e dei prezzi di beni di prima necessità; la leva obbligatoria; l’aggravarsi della questione demaniale, dovuta all’opportunismo dei ricchi proprietari terrieri. Il brigantaggio, secondo alcuni, fu la prima guerra civile dell’Italia contemporanea e fu soffocato con metodi brutali, tanto da scatenare polemiche persino da parte di esponenti liberali e politici di alcuni stati europei. Secondo Molfese, tra il 1° giu­gno 1861 e il 31 dicembre 1865, i briganti uccisi in combattimento o fu­cilati furono 5.212, quelli arrestati 5.044, quelli presentatisi alle autorità 3.597. Secondo il rapporto del capitano Giovine del 1 aprile 1861, l’esercito piemontese, assorbiti i Cacciatori delle Alpi e le truppe dell’Italia centrale, raggiunse l’imponente dimensione di circa 180.000 uomini. I briganti del periodo erano principalmente persone di umile estrazione sociale, ex soldati dell’esercito delle Due Sicilie ed ex appartenenti all’esercito meridionale (volontari garibaldini) e vi erano anche banditi comuni, oltre che briganti già attivi come tali sotto il precedente governo borbonico. La loro rivolta fu incoraggiata e sostenuta dal governo borbonico in esilio, dal clero e da movimenti esteri come i carlisti spagnoli. Tra i più famosi: Carmine “Donatello” Crocco, di Rionero in Vulture (Basilicata), che riuscì a radunare sotto il suo comando circa duemila uomini, compiendo scorribande tra Basilicata, Campania, Molise e Puglia, affiancato da luogotenenti come Ninco Nanco e Giuseppe Caruso. Il campano Cosimo Giordano, brigante di Cerreto Sannita (Benevento), che divenne noto per aver preso parte all’attacco (e al successivo massacro) ai danni di alcuni soldati del regio esercito, accadimento che ebbe come conseguenza una violenta rappresaglia sulle popolazioni civili di Pontelandolfo e Casalduni, ordinata dal generale Enrico Cialdini. Altri noti furono Luigi “Chiavone” Alonzi, che agì tra l’ex Regno borbonico e lo Stato Pontificio, Michele “Colonnello” Caruso, uno dei più temibili briganti che operarono in Capitanata (parte settentrionale della Puglia), e l’abruzzese Giuseppe Luce della Banda di Cartore che, insieme ad altri complici, il 18 maggio 1863, rapì e uccise, bruciandolo vivo, il ricco possidente terriero e capitano della Guardia nazionale italiana Alessandro Panei di Santa Anatolia (Borgorose in provincia di Rieti). Roccaforte del brigantaggio nel salernitano furono i Monti Picentini, con i gruppi Maratea, Palumbo, Scaglione, Tranchella; le bande Cianci, Manzo e Tranchella, fotografati da Raffaele Del Pozzo, di Salerno, vivevano di rapina, omicidi e sequestri; famoso quello degli imprenditori svizzeri di Fratte Federico Wenner e Isacco Friedli, ad opera della banda di Gaetano Manzo. Nel cilento Tardio e Rubano operavano con un nucleo duro. Anche le donne parteciparono attivamente alle rivolte postunitarie, come le brigantesse Filomena Pennacchio, Michelina Di Cesare, Maria Maddalena De Lellis, e Maria Oliviero. Per acquietare la ribellione meridionale, furono necessari massicci rinforzi militari e promulgazioni di norme speciali temporanee (come la legge Pica in vigore dall’agosto 1863 al dicembre 1865 su gran parte dei territori continentali del precedente regno delle Due Sicilie).La repressione del brigantaggio postunitario, come abbiamo visto, fu molto cruenta e fu condotta col pugno di ferro da militari come Enrico Cialdini, Alfonso La Marmora, Pietro Fumel, Raffaele Cadorna e Ferdinando Pinelli, che destarono polemiche per i metodi impiegati. Va evidenziato che questo aspetto del brigantaggio, inteso come rivolta antisabauda, interessò quasi esclusivamente i territori meridionali continentali ex borbonici, mentre in pratica non si verificò né in Sicilia, nè nei territori di tutti gli altri stati preunitari annessi dal regno di Sardegna per formare l’Italia unita durante il Risorgimento. La fine della guerra, scrive il prof. Pinto, “sancì il trionfo del movimento risorgimentale, la definitiva sostituzione dello Stato napoletano con la Nazione italiana, l’eliminazione di un fenomeno plurisecolare come il brigantaggio e anticipò un problema decisivo della storia nazionale, la questione sociale, poi meridionale, dando vita a uno dei più longevi dibattiti politico-culturali italiani, a cui parteciparono scrittori, politici e intellettuali che riconoscevano implicitamente che dietro di essa vi era qualcosa di più della sola arretratezza socioeconomica”.


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