a cura della Redazione “Scuola e studenti” e “Focus Junior”


Ancora oggi molti credono e ripetono, per averlo sentito dire o letto in qualche libro, che Galilei(1) è stato l’inventore del cannocchiale o che, quanto meno, egli fu il primo a puntarlo verso il cielo, per osservare i corpi celesti; ma entrambe le affermazioni sono false. Il cannocchiale, in realtà, ha molti, troppi padri.

Di certo un esemplare venne costruito nel 1608 da un ottico tedesco naturalizzato olandese, Hans Lippershey, e non da Galilei, che pure se ne attribuì la fama; poco dopo anche Zacharias Janssenb rivendicò l’invenzione e ne fece richiesta di brevetto agli Stati Genrali d’Olanda, come Lippershey, ma entrambi senza ottenerlo, con la motivazione che tali strumenti erano già esistenti.

Anche Giambattista Della Porta rivendicò la priorità dell’invenzione, perché, nel suo «De reflectione», aveva esposto i presupposti teorici dello strumento, senza però tentarne una applicazione pratica.

Va ricordato poi che, per il filosofo Cartesio, il merito di aver costruito il primo cannocchiale va a un altro olandese ancora, Jacques Metius.

Certo è che, fra gli ultimi mesi del 1608 e i primi del 1609, piccoli strumenti per ingrandire le immagini erano in vendita a Parigi, a Londra, a Milano; e questa proliferazione spiega l’imbarazzo dell’Ufficio brevetti olandese.

Molto attento alla propria gloria e alle proprie remunerazioni, Galilei riuscì ad avere notizia dell’invenzione, fra l’altro dal nobile francese Iacopo Badovere, e, quasi certamente, a procurarsi un esemplare dello strumento, nella primavera del 1609. Il 21 agosto  – quindi non dopo un giorno e mezzo, come vuol dare a intendere nel «Saggiatore», ma dopo alcuni mesi di lavoro per perfezionarlo o ricostruirlo – lo presentava al governo veneziano come una propria invenzione, durante una spettacolare dimostrazione dalla cima del campanile della Basilica di San Marco, e ne otteneva il raddoppio del proprio stipendio e una offerta vitalizia di insegnamento all’università di Padova.

Galilei non fu neppure il primo ad utilizzare la scoperta di Lippeshey come strumento di osservazione astronomica; è possibile, anzi probabile, che il primo a puntare il cannocchiale verso il cielo, nell’agosto del 1609, sia stato l’astronomo inglese Thomas Hariot.

Inoltre, nel dipinto di Adam Elsheimer «La fuga in Egitto», realizzato nella primavera del 1609 e dunque prima che Galilei, a Padova, incominciasse le sue osservazioni astronomiche, la Via Lattea appare come un fiume di stelle, e si ritiene che tale originale e realistica interpretazione sia il frutto di una visione telescopica.

Keplero, che, a differenza di Galilei, da anni si interessava alla possibilità di realizzare uno strumento che potenziasse la facoltà visiva dell’occhio umano per osservare i corpi celesti, quando seppe della “invenzione” di Galilei, ne chiese una copia allo scienziato italiano, per poter proseguire i suoi studi e per convincere il pubblico della bontà della nuova invenzione, che ancora molti si ostinavano a porre in dubbio.

Per la precisione, Keplero scrisse due volte a Galilei: alla prima lettera questi non rispose nemmeno; alla seconda, rispose che non disponeva di uno strumento da mandargli e che costruirne un altro avrebbe richiesto troppo tempo. Uomo ambiziosissimo e vanaglorioso, Galilei non sopportava l’idea che qualcun altro si avvantaggiasse della “sua” scoperta; del progresso della scienza si preoccupava assai meno che della propria immagine di unico astronomo capace di studiare il cielo non più ad occhio nudo, come da sempre avevano fatto anche i maggiori scienziati.

Ma gli andò male, perché Keplero poté disporre ugualmente, e per un mese intero, del cannocchiale del duca di Braunschweig, di passaggio a Praga, il quale lo aveva ricevuto in dono dallo stesso Galilei: si vede che un duca gli faceva meno ombra di un valente astronomo. Forse l’errore di Keplero fu quello di aver ricordato a Galilei che la paternità del cannocchiale era di Giambattista Della Porta, il quale, infatti, nel 1609, l’aveva rivendicata in una lettera a Federico Cesi, peraltro senza poi insistere nella polemica sulla priorità dell’invenzione.

Comunque, Keplero sostituì la lente convergente che fa da oculare con una lente divergente e ottenne così un notevolissimo miglioramento dello strumento: le successive generazioni di cannocchiali discendono da quello di Keplero e non da quello di Galilei, e, da esse, anche il moderno telescopio rifrattore; mentre il cannocchiale di Galilei, con la sua scomoda e piccolissima pupilla d’uscita, è l’antenato, semmai, dei moderni cannocchiali da teatro.

Ma ecco come lo stesso Galilei, nella parte 13 de « Il Saggiatore», in polemica col Grassi che aveva osato definire il cannocchiale “allievo” e non “figliuolo” dello scienziato toscano, orgogliosamente rivendica la paternità dell’invenzione; e questo con buna pace di tutti coloro i quali continuano a ripetere, con monotona insistenza, che Galilei non avrebbe mai rivendicato tale invenzione, ma solo il suo perfezionamento ad uso astronomico.

Si noti che Galilei non si degna neppure di fare il nome di quell’Olandese, al cui strumento egli va debitore delle proprie scoperte astronomiche, come si trattasse di cosa del tutto trascurabile e irrilevante; ed è logico: se lo facesse, riconoscendogli una dignità e un’importanza, per ciò sesso dovrebbe anche ammettere il proprio debito e ridimensionare la propria parte nell’invenzione del cannocchiale. Anzi, la seconda volta che lo ricorda, ma sempre senza nominarlo, lo definisce «un semplice maestro d’occhiali ordinari», con una espressione che sa francamente di alterigia di classe, se non proprio di altezzosità aristocratica: agli occhi di un nobile come lui, quell’occhialaio olandese era meno di niente, tanto è vero che non meritava d’esser chiamato per nome. E con quanta vanagloria si compiace dei riconoscimenti avuti dal Senato veneziano, del raddoppio di stipendio, e del fatto che esso era già prima tre volte quello dei suoi predecessori all’Università di Padova: come se questo fosse un argomento pertinente, da sbattere sul piatto della controversia; e come se la concezione esteriore e quantitativa del successo, che da esso traspare, avesse qualcosa a che fare con la fondatezza di una affermazione scientifica. Sarebbe come se, oggi, discutendo di una questione scientifica o filosofica, uno dei due interlocutori vantasse le alte tirature dei suoi libri, gli indici di ascolto delle sue comparse in televisione o gli zeri contenuti nel suo stipendio di docente o di ricercatore; eppure ci sono degli storici della letteratura che hanno magnificato questo brano come un mirabile esempio di arte retorica! Sono gli stessi signori, magari in veste di autori di qualche manuale scolastico che va per la maggiore, i quali, però, si guardano bene dal dire che tutto l’impianto del «Saggiatore» è sballato, perché in esso il Galilei voleva polemizzare con Orazio Grassi sulla natura delle comete, che per lui erano delle illusioni ottiche, per l’altro, dei corpi materiali: dunque Galilei aveva torto su tutta la linea, e il Grassi aveva ragione. Oppure lo dicono, ma sforzandosi di minimizzare la cosa, come fosse questione di nessuna importanza; si guardano bene, comunque, dal rispettare la “par condicio”, riportando anche qualche riga del Grassi; e se la cavano dicendo che «Il Saggiatore», comunque, rimane un testo fondamentale per la definizione del moderno metodo scientifico.

Ebbene, vediamolo un po’ da vicino, questo famoso metodo scientifico: l’autodifesa di Galilei a proposito del cannocchiale ne è un buon esempio. Egli dice che quel tale Olandese, da semplice occhialaio, non aveva compreso l’importanza della sua scoperta, e che ci era arrivato per puro caso: ma come lo sapeva? Si era forse preso la briga di mettersi in contatto con lui, non diciamo per ringraziarlo (tanta signorilità non sarebbe stata nella sua natura), ma almeno per capire come egli fosse pervenuto alla costruzione del suo strumento? Oppure tirava a indovinare, tanto per sminuire l’importanza di quella scoperta e, dunque, magnificare se stesso?

In compenso, rivendica per sé tutto il merito di aver costruito il proprio strumento non per caso, ma per via di ragionamento: ma certo, come avrebbe potuto fare altrimenti, senza dover ammettere almeno un debito di principio da quell’oscuro ottico straniero?

Tale era l’uomo, tale lo scienziato: invidioso dei meriti altrui (Lippershey), iroso e sferzante verso gli avversari (Grassi), geloso dei possibili concorrenti alla sua gloria (Keplero), ma in compenso orgogliosissimo dei propri meriti, attentissimo alla propria fama, insofferente di qualunque ombra, di qualunque riserva sulla eccellenza del proprio valore di scienziato: senza un briciolo di modestia, senza un briciolo di rispetto per la sensibilità dell’interlocutore, che continuamente egli sminuisce, offende e cerca di ridicolizzare in ogni modo.

I suoi ammiratori lo hanno chiamato un maestro della retorica, appunto per la sua capacità di servirsi della penna come di una spada affilata; senza rendersi conto che questa, per uno scrittore, non è una qualità degna di ammirazione, ma una debolezza del pensiero: perché chi è forte dei propri argomenti, non ha bisogno di artifici retorici e, anzi, li disdegna, massime se si tratta di uno scienziato impegnato a difendere le proprie idee.

C’è qualche critico letterario che lo considera il più grande scrittore di quel gran secolo che è stato il Seicento: addirittura; sarebbe interessare vedere quanto pesi, in questo giudizio spropositato, la fama di Galilei come scienziato; ancora più interessante sarebbe discernere quanto tale fama sia meritata, cioè pertinente a dei meriti reali e incontestabili, e quanto all’abile auto-promozione che Galilei ha saputo fare della propria attività scientifica; quello di essersi appropriato dell’invenzione del cannocchiale è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare.

In realtà, proprio come Giambattista Marino è stato, nel campo della poesia, il più grane manager di se stesso, estremamente accorto nel valorizzare la propria immagine e nell’ottenere l’attenzione dei potenti e delle ottime retribuzioni economiche, la stessa cosa si potrebbe dire di Galilei, nel campo della scienza; ma di quale scienza, poi?

Della cosmologia, per aver sostenuto il sistema copernicano, concepito non da lui, ma da altri (e, per la prima volta, dal greco Aristarco di Samo)? Ma non è stato certo il solo, anche se il processo a lui intentato dall’Inquisizione ne ha fatto poco meno che un martire laico mancato. Dell’astronomia, per aver osservato e descritto la superficie lunare? Ma Galilei non fu il primo: i disegni di Thomas Hariot, eseguiti fra maggio e agosto del 1609, mostrano che l’inglese lo aveva preceduto; e, quanto alla precisione, Paul Feyerabend ha fatto notare che i “mari” e i monti lunari, disegnati da lui in maniera piuttosto fantasiosa, mostrano o che il suo strumento era molto impreciso, o che egli stesso era un osservatore meno che mediocre. Della fisica, dell’ottica, dell’anatomia, della matematica? In nessuno di questi campi il suo contributo è stato particolarmente originale, né determinante. Allora, per aver formulato il moderno metodo scientifico, sperimentale, svincolato dal principio di autorità? Ma questo è il ritratto che gli è stato impresso, a posteriori, dai sostenitori della scienza moderna: quantitativa, descrittiva, riduzionista, meccanicista e tendenzialmente materialista; e non è necessariamente un titolo di merito.

Frontespizio della prima edizione del Dialogo di Galileo Galilei

Sanguigno, collerico, presuntuoso, arrogante, sprezzante verso gli altri, sarcastico, insultante: tutto questo traspare di Galilei attraverso le sue opere, compreso il suo capolavoro, quel «Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo» in cui mette in caricatura, nel personaggio di Simplicio (il nome è tutto un programma), niente meno che il papa Urbano VIII, Maffeo Barberini. Non gli bastava essere ritenuto una grande autorità in campo scientifico, voleva anche insegnare ai teologi come si devono leggere le Sacre Scritture; e, se non bastasse, come deve funzionare la mente di Dio, almeno quando si tratta di proposizioni riguardanti la matematica: ne fa testo la celebre lettera a Benedetto Castelli. Era un uomo piccolo, ma che si credeva grande e tale ha finito per diventare, nell’immaginario collettivo; forse perché il moderno pensiero scientista aveva bisogno di una bandiera da sventolare: laica e progressista quanto basta per mettere in ombra l’immenso contributo dato al progresso della conoscenza scientifica dalla tanto bistrattata cultura cattolica, gesuiti in testa: e, guarda caso, Orazio Grassi era proprio un gesuita…

Fonte : “inchiostronero”


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