a cura della Redazione “Storia & Ricorrenze”


L’11 aprile del 1970, esattamente cinquant’anni fa, partiva per la Luna la missione Apollo 13.

Doveva essere il terzo sbarco lunare di un equipaggio umano, ma lo scoppio di un serbatoio d’ossigeno due giorni dopo la partenza, mentre il veicolo era ancora in rotta verso la Luna, lasciò i tre astronauti (Jim Lovell, John Swigert e Fred Haise) a corto di ossigeno e di energia, costringendoli a un ritorno d’emergenza che tenne il mondo con il fiato sospeso e si concluse felicemente grazie alla preparazione, all’improvvisazione e alla tenacia di migliaia di tecnici e dipendenti della NASA.

Apollo 13 divenne “un disastro di grande successo”: un misto di geniale improvvisazione e di immensa preparazione tecnica permise di trasformare quella che sembrava una tragedia inevitabile in un salvataggio spettacolare, immortalato fra l’altro con notevole fedeltà nel bel film Apollo 13 di Ron Howard.

Avendo perso gran parte dell’ossigeno e dell’energia di bordo, e non sapendo in che condizioni fosse il motore principale del veicolo, fu deciso di usare la “scialuppa”, ossia il Modulo Lunare ancora collegato al veicolo principale, come unica fonte di energia e di propulsione.

A corto di aria e nel gelo della strettissima cabina, i tre astronauti dovettero proseguire nella propria traiettoria fino a girare intorno alla Luna per poi ricadere verso la Terra, usando i computer di bordo, il proprio sangue freddo e la propria enorme preparazione per gestire le crisi man mano che si presentavano (come adattare i filtri per l’anidride carbonica usando solo nastro adesivo, copertine di manuali e altri oggetti di bordo), sperando che i computer e gli impianti elettrici, spenti e intrisi di condensa, non andassero in corto circuito nel momento della riaccensione e orientando a mano il veicolo spaziale invece di dipendere dai computer per il rientro, sapendo che la tolleranza fra la vita e la morte era di due soli gradi.

“Houston abbiamo un problema”

Cinquant’anni fa decollava l’Apollo 13 Un fallimento o grande missione? Il dibattito cinquant’anni dopo è ancora aperto. L’esplosione del modulo di servizio impedì l’allunaggio e i cosmonauti, per sopravvivere e tornare sulla Terra, non poterono fare altro che affidarsi alla propria esperienza. L’astronauta Fred Wallace Haise dirà a posteriori: “Apollo 13 ha mostrato che cosa si può fare quando le persone usano le loro menti e un po’ d’ingegnosità”

Sarà stato il numero 13 a portare sfortuna? Gli astronauti, rimasti in vita, ancora oggi utilizzano il tredici nelle loro e-mail. Nessuna superstizione, dunque, tanto meno delusione: il mancato allunaggio della missione Apollo 13 trasformò una “comune” passeggiata sulla Luna in un’impresa epica, celebrata da Hollywood e destinata a restare nella memoria collettiva: “Houston abbiamo un problema”.

A differenza delle precedenti Apollo 11 e Apollo 12, missioni che riuscirono ad atterrare sulla Luna, l’esplosione di un modulo di servizio condizionò le operazioni di allunaggio dell’Apollo 13. Il problema non fu più come atterrare sull’obiettivo ma come ritornare a casa. Solo l’esperienza e lo spirito di adattamento del Comandante James Arthur Lovell e dei piloti John Leonard Swigert e Fred Wallace Haise, decollati l’11 aprile 1970 alle ore 13:13 dal Kennedy Space Center, garantì la soluzione. “Sono ancora vivo.

Finché posso continuare a respirare, sto bene”, ha dichiarato Lovell, 92 anni. “È stata una grande missione”, gli fa eco Haise, 86 anni, che ha dimostrato “cosa si può fare se le persone usano le loro menti e un po’ di ingegnosità”. Swigert è morto nel 1982. Come pilota del modulo lunare, Haise sarebbe diventato il sesto uomo a camminare sulla superficie grigia e polverosa della Luna. Un sogno, sulla scia dei pionieri Neil Armstrong e Buzz Aldrin, sfumato per un guasto: “Houston abbiamo un problema” fu la parola d’ordine in seguito all’esplosione. Con l’obiettivo davanti agli occhi, i tre si accorsero della caduta di tensione improvvisa in uno dei due principali circuiti elettrici. In pochi secondi, il controllo della missione registrò seri danni alla bombola di ossigeno, fuoriusciva nel vuoto racconteranno gli “eroi”, e la distruzione di due celle a combustibile che servivano a generare energia elettrica. L’allunaggio scomparve ben presto dalle loro menti e in un quadro così compromesso, a 322 mila chilometri dalla Terra, i tre dovettero restare calmi e ragionare. “L’esplosione non sarebbe potuta avvenire in un momento migliore”, ha spiegato Lovell. “Se fosse avvenuta durante l’orbita lunare o, peggio ancora, quando due di noi erano sulla superficie lunare, sarebbe stata la fine”. “Abbiamo ricevuto un aiuto divino, non abbiamo mai detto stiamo per morire”, ha concluso Lovell che vive ancora a Houston. La decisione, in collaborazione con gli uomini a terra, fu di trasferirsi nel Modulo Lunare “Aquarius” che, progettato per l’allunaggio, divenne la navicella di ritorno. Il lander, tra l’altro, era stato progettato per due persone e per soli due giorni di viaggio. Gli “sventurati” si ritrovarono nell’Aquarius in tre e dovettero convivere per quattro giorni. Persino il sovraccarico di anidride carbonica, causato dalla respirazione, ha minacciato di ucciderli. Purtroppo per loro, la pandemia che sta affliggendo il mondo li priverà anche delle celebrazioni per il cinquantesimo. Festeggiamenti sospesi al Kennedy Space Center in Florida, dove il la missione iniziò l’11 aprile 1970, un sabato come un altro. Apollo 13 è storia. Una missione eroica celebrata anche dal cinema. “Il fallimento non è una opzione”, ripeteva il controllore di volo Eugene F. Kranz che Hollywood ha celebrato con “Apollo 13”, il film uscito nel 1995 con Ed Harris nel ruolo di Kranz e Tom Hanks nei panni di Lovell. Il futuro? “La presenza stabile sulla Luna”, ha dichiarato Jim Bridenstine, Amministratore della National Aeronautics and Space Administration. “Abbiamo evidenziato gli elementi chiave necessari per realizzare la base. Tra questi, due rover necessari per spostarsi sulla superficie lunare, uno dei quali sarà dotato di servizi e consentirà all’equipaggio di effettuare viaggi lunghi anche 45 giorni. Nella regione polare a sud sorgerà un’installazione con supporti vitali, sistemi di comunicazione, schermature contro le radiazioni, pianificazioni di stoccaggio e piattaforma di atterraggio”, dichiarano gli esperti. “Scopo di questa base sarà la sperimentazione. L’equipaggio potrà effettuare misurazioni in ambienti estremi o testare tecnologie necessarie al viaggio dell’uomo verso Marte. Mentre le altre nazioni si spostano sempre più nello spazio, la leadership americana è ora chiamata a guidare la prossima fase della ricerca dell’umanità per aprire il futuro alla scoperta e alla crescita senza fine”, è il commento della Nasa.


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