a cura della Redazione “Fondazione Veronesi”
L’assenza di rapporti sociali può aprire la porta a disturbi cognitivi. Uno studio ha cercato i segni della solitudine prolungata sul cervello.
Troppa solitudine fa male. Ma quanto male? E quanta solitudine? Inoltre: se la solitudine è una scelta, può addirittura fare bene. È quando viene vissuta come uno stato di fatto non voluto che possono nascere problemi. Un gruppo di studiosi coordinati dall’Università di Boston (Usa) e dal King’s College di Londra sta seguendo da tempo questa esperienza, e ha voluto chiarire il nesso fra quattro tipi di solitudine (nessuna, passeggera, incidentale, persistente), le funzioni cognitive e i volumi di alcune aree del cervello.
LASCIA IL SEGNO LA SOLITUDINE NON VOLUTA E DURATURA
Il gruppo di ricerca si è avvalso dei dati del Framingham Heart Study, un importante studio epidemiologico di coorte, condotto fin dal 1948 nella cittadina statunitense di Framingham (Massachusetts) con lo scopo di stimare il rischio delle patologie cardiovascolari. Da allora gli stili di vita e altre caratteristiche degli abitanti sono stati considerati anche per altri obiettivi di indagine. In questo caso, le solitudini. Una prima indagine è già stata compiuta dal gruppo riferendosi alla seconda generazione del Framingham da cui è risultato che la mancanza di contatti sociali può aprire la via a malattie mentali, come l’Alzheimer, soltanto se è non voluta e persistente.
LA PROTEZIONE DI UNA BREVE PROVA SUPERATA
La solitudine incidentale, causata dunque da un ostacolo, e perciò passeggera, ha invece sorpreso rivelando capacità protettive: rafforza le capacità di reazione della persona, rendendola – con una parola molto in voga – più resiliente. Lo studio attuale, comparso su The Lancet, ha considerato i soggetti dalla terza generazione del Framingham, trovandosi a studiare persone più giovani, età media 46 anni, dunque esenti da Alzheimer. In totale 2.609 persone, al 54 per cento donne. Quanti nel gruppo denunciavano una solitudine persistente erano più facilmente di sesso femminile, depressi, fumatori, sovrappeso, single e disoccupati.
ATROFIA DI ALCUNE ZONE CEREBRALI
Da altri punti di vista (livello di scolarizzazione, età, salute cardiovascolare, diabete) non si sono trovate differenze significative fra i quattro tipi di solitudine. L’ipotesi messa sul tavolo era di scoprire se la solitudine persistente fosse associata a un declino cognitivo e pure ad atrofia di regioni cerebrali correlate all’Alzheimer. L’indagine ha individuato un certo declino cognitivo in particolare della memoria logica e delle funzioni esecutive, assenti nei casi di solitudine breve. Si è trovato – a livello di aree cerebrali – un volume più ridotto del lobo temporale e dell’ippocampo. Tali aree, notano i ricercatori, sono largamente sovrapposte al cosiddetto “cervello sociale”. Tuttavia lo studio ha trovato che le solitudini di lunga durata sono associate con l’atrofia del lobo parietale solo in presenza del gene ApoE4, associato ad un forte rischio per lo sviluppo dell’Alzheimer.
LE DONNE SONO PIU’ FRAGILI
Da notare una differenza di genere: le donne appaiono più portate a sentirsi sole e a sviluppare l’Alzheimer, e le loro strutture cerebrali più coinvolte appaiono consistere nelle zone dell’ippocampo e temporali. L’auspicio finale dei ricercatori è che si portino avanti studi sulle differenze sessuali in tema di solitudini e interventi per mitigare l’isolamento sociale persistente nella terza età.
Fonte : “FondazioneVeronesi” – articolo di Serena Zoli
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