a cura della Redazione “Fumetto Story”

Topolino tornò a essere un luogo amichevole per gli autori, tanto nei dettagli artistici quanto nelle faccende pragmatiche. Dal novembre 1988, con il n. 1719, iniziarono a comparire sotto ogni storia le firme degli autori, fino ad allora confinate alla rinfusa nel colophon. Capelli responsabilizzò le persone e si aprì al dialogo creativo. Se prima si disincentivavano i complimenti, ora il feedback era continuo e senza soluzione di continuità.

Il direttore pretendeva molto, dallo staff e da sé stesso. Si presentava in ufficio la domenica mattina, lavorava anche se era ammalato, si arrabbiava se gli compravano forbici nuove quando aveva solo chiesto di arrotare quelle vecchie. «Aveva un attaccamento al lavoro che andava al di là degli orari e delle situazioni» commenta Gianni Bono. «Non ha mai vissuto di rendita, arrivava al mattino e non usciva finché il giornale non era pronto. Era il primo ad arrivare, l’ultimo ad andare via.»

«Godevo di completa libertà nella scelta dei contenuti (purché rispettassero l’etica Disney)» ricorda Capelli a Fumettologica. Era lasciato libero dalla dirigenza al punto da non dover nemmeno presentare un bilancio preventivo di spesa per le iniziative. Non c’era limite alle idee realizzabili o alle storie pubblicabili, bastava avere il coraggio di proporle.

Scandagliò ogni aspetto che potesse essere rinfrescato: le copertine con le fotografie, le storie dipinte in cui i personaggi venivano disegnati su fogli acetati come in un film animato, ma anche il formato. Fu così che Romano Scarpa poté omaggiare Floyd Gottfredson con una serie di storie a strisce, nacquero i racconti a bivi e saghe di ampio respiro come La trilogia della Spada di Ghiaccio di Massimo De Vita.

Presente a ogni fase della produzione, era attento ai dettagli più specifici. Silvia Ziche racconta che, di fronte alle prime tavole consegnate, Capelli le disse che c’erano «troppo pochi neri». Fu, più degli altri direttori, attentissimo al marketing e abile nel gestire le promozioni con gli altri rami della compagnia riuscendo a non farle (quasi) mai percepire come invadenti. «Avevamo un direttore marketing che si chiamava Giancarlo Ferreri, con cui Capelli andava perfettamente d’accordo» racconta Gianni Bono, all’epoca caporedattore del giornale, «ma le migliori idee erano di Gaudenzio, non perché Giancarlo non le avesse ma perché a Gaudenzio venivano prima. È sempre stato un passo avanti rispetto agli altri».

Capelli, che non considerava il pianeta Disney come un sistema filosofico, ma «più modestamente, una pillola di poesia, di fantasia, da prendere come rasserenante», avvicinò i fumetti all’attualità, nei due sensi di marcia: inserendo la banda Disney in attività educative o sfruttando alla bisogna un tema per una storia. «Il mio obiettivo è stato di inserire sempre di più Topolino nella nostra vita concreta» disse a La Stampa nel 1994. «Topolino sprigiona magia, favola. E la favola è un mezzo per far agire i bambini nella realtà.»

Sulle pagine del libretto trovarono spazio personalità della cultura contemporanea, in qualità di comparse nei fumetti o sceneggiatori una tantum, si cavalcarono le questioni dell’ambientalismo, delle tecnologie e della politica (con risultati concreti), permettendo ad autori come Giorgio Pezzin di scrivere la sferzante presa in giro Paperino portaborse; si consolidò la tradizione del “Trofeo Topolino”, nata nel 1957 con la gara sciistica voluta da Mike Bongiorno e Rolly Marchi, e allargata a pallacanestro, golf, karate, rugby, scherma; si intensificò la collaborazione con realtà come Telethon, Telefono Azzurro, Il Sole 24 ORE, con cui la redazione lavorò in tandem per il supplemento L’economia di Zio Paperone, idea ritenuta dai più potenzialmente fallimentare e che invece diede ottimi esiti.

Il sommario di Topolino negli anni 1984, 1987 e 1992.

«Il primo obiettivo è quello di divertire. Ma chi l’ha detto che non lo si possa fare, offrendo, contemporaneamente, informazione ed educazione sociale?» disse Capelli in un’intervista. «Certe cose, imparate da piccoli, non si scordano più. Così noi stiamo tentando di dare il nostro contributo ad allevare una generazione migliore.»

I ganci potevano provenire anche da momenti di disimpegno: l’arrivo di nuovi programmi (due storie dedicate al contenitore Disney-centrico Pista!, condotto da Maurizio Nichetti), il passaggio televisivo di qualche film (Paperino e il vento del sud, omaggio in occasione della messa in onda di Via col vento su Rai 1 nel 1982) o eventi aggreganti come il Festival di Sanremo. Capelli volle fumetti dinamici, che tenevano il passo con la contemporaneità, a rischio di produrre materiale dalla scadenza ravvicinata. Non gli importava sembrare datato a distanza di anni, l’importante era non esserlo nella settimana d’uscita, come era successo a Gentilini, che nel 1959 aveva mandato in stampa una scena in cui Pietro Gambadilegno utilizzava un anacronistico grammofono per ascoltare la musica (in Topolino e la stella dello sceriffo).

Ne è un esempio Zio Paperone e il centenario (+ uno) bullonario, un’avventura invecchiata male ma che ricevette copertura mediatica sui giornali, grazie alle caricature di Gianni Agnelli, Silvio Berlusconi e Mike Bongiorno. L’insistente trattamento esplicito della realtà che Capelli e i suoi stavano portando avanti offrì il fianco ad accuse di pedanteria. Antonio Faeti lamentò il rischio di banalizzazione, scrivendo che avrebbe preferito vedere la berlusconità di un personaggio invece che un finto Berlusconi passeggiare per Paperopoli. Capelli rispose che «l’attualità è solo uno dei moltissimi spunti da cui attingiamo le storie. Non diverrà mai il principale, sarebbe suicida».

Le sinergie tra Topolinia e la realtà funzionarono da un punto di vista promozionale. A volte però l’attenzione della stampa travalicò il desiderio di notorietà dell’editore, come nel polverone sollevato da Topolino in “Ciao, Minnotchka”, rea di presentare un Topolino reazionario e conservatore. L’allora segretario di Rifondazione Comunista Sergio Garavino criticò il settimanale perché pubblicava «storie che fanno apparire Guareschi e il senatore McCarthy anticomunisti all’acqua di rose». O in quello di Topolino in: Ho sposato una strega, che quasi portò al licenziamento di Capelli perché osava suggerire situazioni d’amore fisico tra Topolino e un’altra donna. Capelli rimase al proprio posto ma le tavole furono bruciate, e la storia mai più ristampata.

Incidenti diplomatici a parte, Capelli riuscì a fermare l’erosione e a guadagnare lettori. Nel 1986 le vendite risalirono a mezzo milione di copie e il volume d’affari generato dai fumetti toccò i venti miliardi di lire, sui cinquanta totali prodotti dal marchio in Italia. Iniziava negli Stati Uniti il periodo noto come “Rinascimento Disney” e anche il nostro paese stava avvertendo questa frenesia. Chi ha incastrato Roger Rabbit e La bella e la bestia furono i film più visti in Italia nelle loro rispettive stagioni d’uscita. I più piccoli non avevano l’infinita disponibilità di consumo che c’è oggi e se volevano un’altra porzione di intrattenimento Disney si dovevano rivolgere a Topolino.

Forte delle risorse di casa Disney, si poterono realizzare allegati esclusivi (le VHS per gli abbonati) e gadget popolarissimi, che fecero raggiungere il milione di copie vendute, un traguardo inedito per il fumetto italiano – anche se alcune fonti riportano che il record sarebbe stato toccato, sempre da Topolino, nel luglio 1975, con una diffusione di 1.140.000 esemplari.

Capelli traghettò Topolino nel passaggio di proprietà. Nel 1988, la casa madre tolse la licenza a Mondadori – che combatté la cosa in ogni modo: gli eredi volarono negli Stati Uniti per parlare direttamente con Roy Disney portando sottobraccio l’album di famiglia con le foto di Arnoldo Mondadori in vacanza a Portofino con Walt – e fondò la propria divisione in Italia, per produrre libri e fumetti autonomamente. I dirigenti mantennero Capelli e il suo staff. Ci sarebbe stato un controllo più attento alle storie, certo, ma anche un editore pronto a investire sul prodotto.

«Per Mondadori eravamo una delle molte testate da mandare in edicola ogni settimana» disse Capelli. «Gli investimenti erano sempre rimandati. La Disney ci ha consentito di migliorare la qualità della carta e di aumentare le pagine. E c’è spazio per gli esperimenti.» Valentina De Poli, futura direttrice del settimanale e all’epoca membro tra i più giovani della redazione, ricorda che «l’idea di diventare parte della casa madre e essere protagonisti dell’affermazione di Disney in Italia nella golden age dell’editoria aveva portato l’entusiasmo alle stelle. C’era un clima di invincibilità che si rispecchiava in ogni cosa che veniva realizzata e proposta».

Topolino diventò l’epicentro di una piccola industria: nell’autunno del 1988 nacque l’Accademia Disney, varata per sopperire alla domanda di produzione sempre maggiore, tra merchandising di sorta e riviste per collezionisti (Zio Paperone), infanti (Cip & Ciop), appassionati di gialli (Topomistery) e ragazze (Minni & Company). Affidata a Giovan Battista Carpi, fu inizialmente chiamata Scuola Disney, poi Disney University, per diventare nel 1993 Accademia Disney, sotto la guida di Roberto Santillo.

Capelli, che pure non vide di buon occhio la nascita di prodotti dedicati a pubblici specifici perché temeva che questi avrebbero sottratto lettori a Topolino e creato disaffezione verso il marchio più importante dell’azienda, si sobbarcò la direzione di tutti i mensili, dimostrando una visione d’insieme che sapeva preservare l’identità dei singoli prodotti.

Tra gli errori di una gestione altrimenti lucidissima, ci fu la tendenza a incentivare le commesse di materiale. Desideroso di riconoscere a Guido Martina una qualche forma di vitalizio, commissionò al Professore una serie di storie che la redazione metteva in una scatola senza nemmeno leggere. Sarebbe stata una situazione irripetibile negli anni successivi, segnati da politiche di risparmio rigorose, in parte per colpa della gestione di Capelli, il quale stimolò talmente tanto la produzione da lasciare due anni di storie inedite.

Il direttore chiuse la propria esperienza nel marzo 1994, in concomitanza con i festeggiamenti del n. 2000. Lasciò un ricordo di sé talmente buono che alcuni sovrastimarono i suoi meriti. Dopo aver tentato di farlo restare alla guida del settimanale, in Disney erano talmente convinti del suo intuito editoriale che gli fecero firmare una clausola in cui Capelli si impegnava – a fronte di una cifra non inferiore ai cento milioni di lire – a non fondare un giornale concorrente di Topolino, il cui successo sarà stato anche dovuto alla direzione impressa dai singoli ma è soprattutto stato alimentato dal fascino dei personaggi, impossibili da replicare altrove.

«Ho l’impressione di aver vissuto per 33 anni in un bellissimo edificio fatto di suoni, colori, musiche, architetture fantastiche» disse al Corriere della sera nel marzo 1994, «qualcosa di simile all’Eden favoloso dell’infanzia che si rammenta con rimpianto nell’età adulta, con la differenza che per me quell’idillio si è prolungato fino alla maturità nel lavoro quotidiano in maniera decisamente gioiosa.»


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