a cura della Redazione “Fumetto Story”


Gentilini si fece portavoce della paternità italiana delle storie presso il grande pubblico, in un momento delicato per l’editore, la morte di Walt Disney. Nella mente dei lettori, che avevano sempre guardato ai fumetti come un’emanazione diretta di Disney (equivoco fortificato dal fatto che gli autori delle storie rimasero a lungo non accreditati), la dipartita del mogul significava anche la fine di qualsiasi prodotto da lui firmato. Così, il 14 dicembre 1968 Canzonissima si collegò con la tipografia veronese di Mondadori dove Luigi Silori, accompagnato da Gentilini, attendeva 21 milioni di spettatori. Alla presenza di Carpi e Scarpa, il direttore illustrò l’iter produttivo del giornale. Silori evidenziò l’importanza della notizia, confermata dallo stesso Gentilini: «Non lo sapeva certamente nessuno».

Gentilini condusse la rivista attraverso i grandi mutamenti degli anni Sessanta. Il boom economico investì anche Topolino, ormai stampato tutto a colori e arrivato, nel giugno 1965, a festeggiare i 500 numeri con una copertina dorata, una lettera di Walt Disney al direttore e il primo gadget in assoluto, una vera farfalla. In parallelo, il professore sperimentò con I classici di Walt Disney, storie unite da pagine connettive che rendevano il volume un’unica avventura, e insieme a Elisa Penna, passata a essere caporedattore nel 1962 e vicedirettore dal 1979 al 1994, inventò lo scoutistico Manuale delle Giovani Marmotte, formula editoriale replicata con titoli molto popolari dedicati a cucina (Il manuale di Nonna Papera), magia (Il manuale di Paperinik) e scienza (Il manuale di Archimede).

Topolino diventò «un classico in divenire», «ricco di fantasia, con qualche aggancio alla realtà» ma Gentilini non si azzardava a concepirlo come qualcosa che non fosse altro che «uno svago per chi ha già tanti problemi (gli adulti) e per chi non ne ha ancora (i lettori più giovani)». In effetti, le indagini di mercato rivelarono che il 30% dei suoi lettori aveva sopra i vent’anni e veniva da letture colte come Linus. Questo portò il settimanale a pubblicare storie d’archivio o con afflati meno infantili, e iniziarono ad apparire storie sponsorizzate, rivolte a consumatori adulti (la prima, datata 1964, vedeva Paperino viaggiare intorno al mondo con una Fiat 850). Dall’esterno, Topolino era un fumetto di successo, eppure le dinamiche interne raccontavano un’altra storia. Il direttore aveva creato un ambiente di lavoro atipico. Non era una redazione giornalistica in cui ci si poteva permettere l’informalità; ognuno lavorava in solitaria, non c’erano liti ma nemmeno cameratismo, e se facevi gruppo eri malvisto. Al direttore si dava sempre del “lei”. «Uno dei problemi maggiori per la redazione era rappresentato dall’isolamento tra gli autori» scrisse Gaudenzio Capelli, successore di Gentilini, nel volume I Disney Italiani. «Bisognava evitare che questa situazione creasse difformità di stile e di contenuti».

A tal scopo fu introdotta la figura del caposervizio alle sceneggiature, un coordinatore che supervisionasse tutte le storie in produzione. Il primo fu Gian Giacomo Dalmasso, sceneggiatore pacato, attento alla lingua e agli eccessi (fece correggere un dialogo in fase di lettering perché spezzava una parola in maniera ambigua: «Organizziamo una lotteria bene-fica!»), il quale divenne il terzo polo, dopo Gentilini e Penna, con cui gli autori si interfacciavano. Per dare coerenza ai disegni, invece, Marco Rota fu nominato direttore artistico. Da Gentilini ricevette l’indicazione di ritoccare le tavole rifacendosi alla creatività disneyana e imponendo ai disegnatori di attualizzare con il dovuto piglio i modelli di Al Taliaferro, Floyd Gottfredson e Carl Barks. La sua linea grafica classica, debitrice di Barks, avrebbe definito la seconda ondata dello stile Disney italiano – comunque non estraneo a personalismi grafici. Gentilini è ricordato da alcuni autori – Luciano Gatto, Carlo Chendi, Giorgio Pezzin – come una persona affabile, precisa, gelosa dei suoi collaboratori, paterna con i membri più giovani. Era parco di complimenti, specie verso le nuove leve, e con gran parte di loro manteneva le distanze. Con l’avanzare dell’età l’aura che i collaboratori gli avevano proiettato addosso svanì.

Era rimasto a suo agio fintanto che riusciva a delimitare con gli occhi il mondo attorno a sé. Quando i confini si allargarono, iniziò ad andare d’accordo con sempre meno persone, litigando persino con quei pochi che aveva in simpatia, come Rota, con cui Gentilini andò in vacanza per anni, per poi tagliare ogni rapporto. Secondo qualcuno, aveva sviluppato un’avversione per i disegnatori, la cui professione gli era stata negata dal corso degli eventi. Lui stesso ammise che «fu doloroso rinunciare alla pittura». Anche negli Stati Uniti, nelle riunioni periodiche con i vari licenziatari, il «Professor Gentilini» era una delle personalità più stimate. Se il tavolo gli rivolgeva qualche domanda, egli, non conoscendo molto bene l’inglese, dissimulava, gesticolando un poco come a dire «sì, sì, ora vediamo». Tutti cercavano di tradurre la sua risposta come se avesse proferito chissà quale decisione seminale.

Tutt’altro che generoso, si inimicò sceneggiatori e disegnatori, ai quali non concedeva aumenti né riconoscimenti di sorta, con l’eccezione di senatori come Scarpa, che prendeva 60.000 lire a pagina (testi e disegni, circa 140 euro attuali) e un’assicurazione sulla vita. Rota raccontò che Gentilini lo sobbarcava di compiti per giustificare il suo stipendio, ritenuto troppo alto. Era aziendalista a discredito dell’azienda. In più occasioni l’editore indicizzava il budget di spese per il personale, ma bloccando ogni scatto si crearono problemi agli uffici della contabilità. Quando qualcuno chiedeva un aumento Gentilini rispondeva «eh, non so, chiedo, ma…», poi guardava in alto, «su, su», come a dire che non aveva potere decisionale. Per questo motivo, Giorgio Cavazzano, Massimo De Vita e altri smisero di disegnare per Topolino fintanto che Gentilini rimase in carica.