a cura della Redazione Digitale di MotoSportWeb


Il 10 marzo 2003, stroncato da un tumore diagnosticatogli dieci mesi prima, se ne andava a 52 anni Barry Sheene, uno dei più grandi e più amati campioni di motociclismo di tutti i tempi. Barry aveva accettato l’invito di presenziare al GP di Melbourne dicendo che si sentiva bene. Poi, proprio alla vigilia della partenza, una nuova crisi, stavolta quella finale. Era andato a vivere in Australia per domare il male, per fermare la dama nera che con la sua sciabola l’aveva spesso sfiorato in pista, rinviando il conto finale. Lui era cosciente che quella corsa l’avrebbe persa: “La cosa è breve” confiderà poche settimane prima a Giacomo.

Barry, nato nel sobborgo londinese di Holborn (Inghilterra) l’11 settembre 1950, cresce con la passione per le moto e per le corse spinto anche da suo padre Franck, già pilota in gioventù e provetto meccanico-preparatore. A dire il vero, il debutto ufficiale di Barry con una Bultaco 125 sulla serpentina di Brands Hatch fu tutt’altro che promettente ma quel ragazzo sedicenne dimostrò subito dopo di che pasta fosse trionfando sulla stessa pista, stavolta sul bagnato, e avviando quella straordinaria carriera illuminata da tante giornate gloriose ma anche segnata da incidenti e cadute a ripetizione, alcune anche gravi. Un bottino comunque straordinario: due volte campione del mondo della 500 nel 1976 e 1977, 23 Gran Premi vinti, altri titoli mancati e tante gare buttate via per quella voglia di esagerare che Barry aveva dentro, più per sfidare se stesso che gli avversari, peraltro sempre di altissimo livello, fra i più grandi in assoluto. 

Straordinario, soprattutto, era lui come pilota e come persona, dotato di acuta intelligenza e capacità di ascoltare e rispettare chiunque: giovane con la folta capigliatura e di bell’aspetto, dal carattere aperto caratterizzato da una ironia mai fine a se stessa, la corse al centro di tutto (al secondo posto dopo la sua splendida bionda amata moglie Stephanie, star dentro e fuori del paddok) ma intese come strumento per affrontare la vita fuori dal passo della gente comune. L’obiettivo era raggiungere quel successo non fine a se stesso ma condizione per appagare il suo desiderio di arrivare più in alto possibile e prima possibile come presagisse una scadenza assai vicina e inevitabile. Dunque grandi corse, grandi vittorie, grandi show, grandi eccessi. Quindi campione carismatico e di gran talento, grande personaggio show-man, capace di parlare anche in italiano, francese e tedesco, socievole e pieno d’allegria che attaccava anche agli altri, avversari compresi, esempio per i tanti nelle corse e fuori che volevano una “vita spericolata”, senza badare alle conseguenze. 

Ancora oggi non è facile capire se Barry è stato più pilota o più personaggio: da quando, unico con la tuta di pelle bianca in una mare di tute nere, si portava allo start sorridente con la sua Gauloises accesa magari dopo aver scolato una bottiglietta di brandy o di quando arrivava in pista con la sua Rolls Roice targata BS7 fra due ali di folla, auto sostituita poi dal suo elicottero, pilotato personalmente, all’epoca una eccezione. A quei tempi Barry viveva in Inghilterra in un suo castello che apriva a chiunque bussava, magari solo per un saluto e un autografo. Amava i Beatles e da loro veniva ricambiato. E come i Beatles era un Baronetto di Sua Maestà, onorificenza mai ostentata ma di cui andava fiero. Con James Hunt, pilota di Formula 1, Sheene formava una coppia mondiale di vizi e anticonformismo. Va detto che Barry, apparentemente poco interessato alla vita quotidiana e agli interessi pratici dei comuni mortali, era maestro nelle trattative con i team e le case per cui correva e firmava contratti con gli organizzatori delle corse internazionali in Italia e nel mondo davvero eccellenti, addirittura superiori a quelli di Giacomo Agostini, che è tutto dire. Quando nel paddock c’era maretta fra corridori o fra questi e gli organizzatori era spesso Sheene, sempre con il sorriso e la battuta pronta, a riportare tutti alla ragione, superando beghe di varia natura. I suoi tanti grandi avversari gli volevano bene accettando sempre tutto, anche quando Barry li superava in corsa irridendoli con il dito medio della mano destra. Fra le tante gare storiche di Barry Sheene qui ricordiamo solo quella della 500 ad Assen alla fine degli anni ’70, la grande battaglia con Giacomo Agostini finita con lo stesso tempo ma con la vittoria dell’inglese al fotofinish. “E’ stata l’unica volta che una sconfitta non mi è dispiaciuta” – dice Agostini.   

Quella di Assen, ottenuta davanti a 200 mila spettatori entusiasti, era la prima delle 19 vittorie in 500 di Barry Sheene. E fra i tanti modi di vivere la corsa lasciando il segno ricordiamo il GP 500 del Mugello di fine ’70: Barry raggiunge in testa Kenny Roberts ma alla Casanova Savelli si imbarca paurosamente rimanendo però in piedi. Il giro successivo, di nuovo sulla scia dell’americano, nello stesso punto del fattaccio del round precedente, con la moto piegata “a terra” lascia la mano destra dal manubrio e fa il gesto di chi si asciuga il sudore per lo spavento e lo scampato pericolo. Il boato del pubblico resta nella storia. Barry Sheene ha tanti record, anche quello di essere stato il pilota con più fratture curate dal dottor Claudio Costa che poi dirà: “Straordinario personaggio e pilota. In cielo il buon Dio avrà bisogno di una bella equipe di angeli ortopedici, che continueranno a curarlo e soprattutto amarlo”. Barry, genio e sregolatezza, il Nuvolari ribelle degli anni 70, resta vivo nel cuore di tutti.

Fonte : “gazzetta.it” – articolo di Massimo Falcioni