a cura della Redazione Spazio Interattivo


Finalmente la Coppa giunge nella sua patria calcistica conquistata dai padroni di casa guidati da Moore, Charlton, Banks e Hurst. E’ il mondiale degli arbitraggi scandalosi e delle grandi stelle (Eusebio, Yaschin, Pelè, Charlton, Seeler). Vergogna per l’Italia, eliminata dai coreani.

Dopo aver navigato tutti i mari la statuetta di Monsieur Rimet, sbarca finalmente nel mitico sta­dio di Wembley, la cattedrale del football, dove «il più grande spet­tacolo del mondo» ha conosciuto momenti di esaltazione collettiva e dove l’urlo imponente della folla ha sottolineato i grandi avvenimenti del calcio. 13 anni do­po l’umiliante sconfitta ad opera dei magiari, la nazionale «bian­ca» è chiamata a riscattare una supremazia che non aveva cono­sciuto cedimenti per quasi un secolo e a ribadire il legame in­scindibile, quasi un cordone om­belicale che unisce il progredire del gioco alla terra che ne ha fa­vorito i natali. Alf Ramsey, suc­cessore di Walter Winterbottom alla guida della nazionale ingle­se fin dall’ottobre 1962, lo dichia­ra apertamente all’assunzione dell’incarico: «L’Inghilterra vin­cerà la prossima Coppa del Mon­do». E’ un impegno tremendo, contrassegnato da momenti di esaltazione, ma anche da sbanda­menti improvvisi, imprevedibili, che ricacciano nel labirinto della pura illusione l’orgogliosa locuzione programmatica del futuro baronetto.

E’ l’Inghilterra comun­que a mostrare al mondo l’organizzatissima struttura del suo «football», con i bellissimi tap­peti verdi di Londra, Manchester, Middlesbrough, Sheffield, Birmin­gham, Liverpool, con gli impianti concepiti razionalmente per me­glio accogliervi il pubblico, con un apparato che al di là dei va­lori strettamente tecnici espressi dal gioco, merita di essere citato ad esempio anche nel momento di massima espansione del feno­meno calcio.

All’edizione inglese aderiscono 53 paesi, Inghilterra e Brasile partecipano di diritto, i turni eliminatori esprimono non poche sorprese come l’estromis­sione di Svezia, Cecoslovacchia, Jugoslavia, Scozia e Germania dell’Est, che dall’edizione del ’58 tenta l’avventura, ma non è mai riuscita ad entrare nel lotto delle finaliste.
La parte del leone è ancora dell’Europa che partecipa con 10 rappresentative: Bulgaria, Germania Ovest, Francia, Porto­gallo, Svizzera, URSS, Italia, Un­gheria, Spagna e Inghilterra; il continente latino-americano riesce ad inserirne 4: Cile, Uruguay, Argentina e Brasile; il solito Mes­sico e la Corea del Nord comple­tano la lista, ma in seno alla FIFA cominciano a manifestarsi i malumori per la scarsa inciden­za dei paesi nuovi, gli africani chiedono insistentemente l’allar­gamento del numero delle finali­ste portandolo a 24 oppure il ri­dimensionamento della presenza europea.

Alle 17 ora di Londra dell’11 luglio, la Regina Elisabet­ta apre il cerimoniale che dà ini­zio alla Coppa del Mondo 1966. Al centro del magnifico tappeto verde di Wembley, la banda delle «Horse guards» intona «When the saints go matching in…» quando Inghilterra e Uruguay penetrano nel grande catino accolti dal tonitruante canto della folla che accompagna la melodia…

L’incontro fra Inghilterra e Por­togallo cancellò ogni dubbio sul­la raggiunta efficienza degli in­glesi. Non erano mancate le po­lemiche per l’esclusione di Jimmy Greaves e per gli sfacciati aiuti ricevuti dagli arbitri condiscen­denti, ma con i lusitani i «bianchi» riuscirono ad esprimere uno «standard» di gioco meri­tevole del titolo. La squadra era ormai strutturata nella forma­zione storica: Banks; Cohen Wil­son; Stiles J. Charlton Moore; Ball Hurst B. Charlton Hunt Peters e il gioco fluiva orchestra­to da un centrocampo ottima­mente organizzato che Bobby Charlton qualificava con inter­venti di grande classe. Il Porto­gallo era arrivato allo scontro consapevole delle difficoltà qua­si insormontabili di strappare un risultato positivo. Non man­cò l’impegno degli uomini che il brasiliano Otto Gloria mandò in campo: Costa Pereira; Festa Hilario; Baptista Carlos Graca; Jo­sé Augusto, Coluna, Torres, Eu­sebio, Simoes, ma la convinzio­ne apparve immediatamente in­sufficiente alla bisogna.

I «bian­chi» vinsero con due splendide reti di Bobby Charlton ed Eusebio conobbe in Nobby Stiles un marcatore implacabile, che gli impediva ogni movimento anticipandone l’azione e riuscì a segnare solamente su penalty per un intervento troppo rude del «brutto anatroccolo». Le lacrime di Eusebio, mentre usciva dal campo (foto), esprimevano la rabbia impotente per un sogno svanito, l’Inghilterra entrava in finale. Per i lusitani c’è la consolazione del terzo posto conqui­stato battendo l’URSS per 2-1.

Il 30 luglio 100.000 spettatori af­follavano le scalee di Wembley per assistere ad un incontro fra due squadre dal gioco affine, incen­trato sul ritmo e la forza, sulla tecnica ed il nerbo atletico. Can­ti ed inni accolsero la trasmis­sione delle formazioni. Per gli inglesi, in netta maggioranza, strepiti ed urla: Banks; Cohen Wilson; Stiles J. Charlton Moore; Ball Hurst B. Charlton Hunt Peters ed il canto intonato all’ini­zio «When the saints…». I te­deschi erano calcolati in 20.000 e non si fecero sovrastare quan­do lo «speaker» annunciò i no­mi dei loro Tillikowski; Hoettges Schnellinger; Beckenbauer Schultz Weber; Haller Overath Seeler Held Emmerich. Al 13′ apre le marcature Haller inven­tando il gol con un tiro dai sedi­ci metri, Schoen e Ramsey han­no deciso una mossa che to­glie allo spettacolo lo scintillio e la brillantezza della qualità del gioco: Bobby Charlton e Franz Beckenbauer che sono gli ispi­ratori della manovra si neutra­lizzano a vicenda e la partita progredisce su altri binari più avventurosi, meno eleganti. Hur­st riesce a pareggiare al 18′ in­tuendo un suggerimento di Alan Ball ma fino al 77′ le invocazio­ni «England… England… England…» non fruttano emozioni particolari. A 13′ dal termine l’Inghilterra in tenuta rossa pas­sa in vantaggio con Peters che raccoglie un centro a seguire di Wilson e batte Tillkowski con un tiro a mezz’altezza.

Sembra fatta, ma i tedeschi hanno ri­sorse nascoste, s’avventano, mor­dono e quando mancano pochi secondi al sibilo di Dienst, We­ber insacca alle spalle di Banks, la rete del pareggio. S’impongo­no i supplementari come nel ’34, molti pensano che il prolun­gamento favorirà i tedeschi, ma al 100′ Alan Ball, il «rosso», mi­gliore in campo nella finale, serve dalla destra l’accorrente Hurst, che spara violentemente in porta: Tillkowski è battuto ma la palla rimbalza in campo e Weber la scaraventa in corner.

Gli inglesi esultano al gol e «Ponzio Pilato» Dienst, che indubbiamente non ha visto il gol si affida al giudizio del guardialinee Bakramow che indica il centro del campo: 3-2, Dienst ha convalidato e proprio sul finire ancora Hurst arrotonda. 4-2, la vittoria dell’Inghilterra, ma il dubbio rimane su quel gol che forse l’occhio umano non poteva intuire, tanta era stata la velocità della palla. Solo una ricostruzione fotografica della rivista tedesca «Kicker» dimo­strerà a posteriori che la palla non era entrata. Soddisfazione magra, sul palco a ricevere la statuetta dalle mani della Regina Elisabetta c’era andato Bobby Moore trionfante e il titolo aveva premiato finalmente gli inventori del football moderno.


Mondiali di Calcio”

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