a cura della Redazione Spazio Interattivo


I padroni di casa portarono sul piano della rissa ogni loro partita; gli italiani, guidati dagli oriundi Maschio, Sivori e Altafini, furono scandalosamente eliminati. Altri episodi misero gli arbitri sotto accusa. Intanto, il Brasile, senza Pelè, lanciava Amarildo (in veste di vice «O Rey») e faceva il bis.

Sulla carta, la Coppa del Mondo cilena, esibiva tutti i nomi della aristocrazia calcistica internazionale. Il Brasile vantava i confermatìssìmi campioni del ’58 con Pelé in testa, la Spagna faceva sognare gli amanti dello spettacolo con Puskas, Di Stefano, Suarez, Gento, l’Italia schierava Sivori, Maschio, Altafini e Rivera, la Jugoslavia Sekularac e Skoblar, l’Ungheria Tichy, Gorocs ed il grandissimo Albert, l’URSS Jaschin e Voronin, la Cecoslovacchia Masopust e Kvasnak, l’Inghilterra Moore, Greaves e Charlton, eccetto Kopa della Francia eliminata dalla Bulgaria, tutti i talenti erano presenti e facevano presagire sontuosi spettacoli secondo gli schemi del 4-2-4, che si era definitivamente imposto in tutte le parti del mondo, come organizzazione di gioco.

Al tirare delle somme, le risultanze furono ben diverse e lo stesso Brasile che alla fine confermò il titolo conquistato nel ’58, non fu esente da critiche. Si affacciò funesta e minacciosa la violenza livellatrice e a parte Italia-Cile che raggiunse gli abissi dell’indegnità sportiva con risse scandalose che l’arbitro Aston si illuse di placare espellendo due azzurri, trovarono cittadinanza comportamenti intimidatori, 15 giocatori subirono incidenti piuttosto gravi, il russo Dubinski subì la frattura di tibia e perone, lo svizzero Eschmann ebbe una gamba fratturata da Szymaniak, il grande Jascin nel corso di Cile-URSS, fu colpito proditoriamente da Landa con un calcio alla testa, che ne limitò l’efficienza per tutto il resto dell’incontro.

L’artefice del mondiale al Cile era stato Carlos Dittborn che riuscì ad ottenere la designazione grazie all’aiuto delle Federazioni sudamericane e per i giochi politici elettorali che oramai imperavano nell’ambito della FIFA. Un paese dalle risorse minerarie invidiabili, accolse il «grande barnum» della Coppa del Mondo nel pieno di una battaglia politica senza esclusione di colpi. Alle posizioni conservatrici dei detentori del potere di cui Jorge Alessandri era l’emanazione diretta, s’opponevano i programmi riformatori del democristiano Eduardo Frei, mentre la sinistra proletaria cominciava la lunga strada del programma che porterà il radicale Allende alla Presidenza nel ’70. I contrasti sociali evidenti, delle belle avenide di Santiago con i paesini sperduti dei contrafforti andini, le sacche di indigenza della periferia della capitale, ispirarono più di un visitatore alla crudezza di resoconti, che toccarono le corde del sentimento nazionalista dei cileni. E furono proprio gli italiani a scivolare sulla buccia di banana provocando il risentimento di cui vedremo più avanti.

56 federazioni avevano aderito alla manifestazione, le quattro sedi accolsero le rappresentative nazionali che avevano superato i turni di qualificazione. A Santiago Cile, Italia, Germania Occ. e Svizzera; a Rancagua Argentina, Bulgaria, Ungheria e Inghilterra, a Vina del Mar Brasile, Messico, Spagna e Cecoslovacchia e nella decentratissima Arica, ai confini con il Perù, 2000 km da Santiago, che era stata scelta nella speranza di potervi accogliere i tifosi peruviani, Uruguay, URSS, Jugoslavia, Colombia.

Il 30 giugno il presidente della Repubblica Jorge Alessandri Rodriguez dichiarò aperti i giochi e con Cile-Svizzera andò a cominciare l’avventura della VII Coppa del Mondo. I «rossi» cileni, condotti da Fernando Riera, avevano sostenuto una intensissima preparazione ma al fischio d’inizio sembravano paralizzati dall’emozione e gli svizzeri approfittando dell’occasione passarono in vantaggio al 7′ e fallirono per un soffio il raddoppio. Poi la spinta del pubblico stimolò la reazione, i cileni riuscirono a rimontare la corrente avversa e ad imporsi alla distanza per 3-1. I valori tecnici del calcio cileno erano modesti, mai la rappresentativa andina era riuscita ad imporsi nel «Sudamericano», la stessa URSS, un anno avanti la Coppa del Mondo, l’aveva battuta facilmente a Santiago, ma il lungo e paziente lavoro di Fernando Riera era riuscito a fondere attorno a Toro, Fouilloux e Leonel Sanchez un gruppo di elementi pronti a tutto e ben decisi a vendere cara la pelle.

La vigilia dei Campioni fu travagliata da una serie di contrattempi. Garrincha, che non era stato squalificato per l’espulsione della semifinale, non aveva assorbito adeguatamente alcune carezze dei cileni e in aggiunta l’autunno incombente dell’emisfero australe gli aveva regalato una infreddatura con tutti i crismi dell’influenza.

Pelé avrebbe voluto apparire almeno nella finale ed insisteva presso Moreira ed Amaral per essere sottoposto ad un provino che la «junta medica» non volle autorizzare. «Mane» comunque fu recuperato e quindi il Brasile si schierò con la migliore formazione possibile: Gylmar; Dyalma Santos, Mauro, Zozimo, Milton Santos; Zito Didi; Garrincha Vavà Amarildo Zagalo. E i cechi con: Schroiff; Tichy Novak; Pluskal Popluhar Masopust; Pospichal Scherer Kvasnak Kadraba Jelinek non mostrarono nessuna reverenza alla maggiore caratura dei campioni.

Lo svolgimento della finale fu in perfetta sintonia con il resto della manifestazione. Solo il gioco fu all’altezza di una finale di Coppa del Mondo e quasi unicamente per merito dei brasiliani. Bloccato Garrincha dai terzino Novak e dalle condizioni fisiche imperfette fu Amarildo, l’eroe della giornata, a suonare la diana della riscossa e a rimontare il gol di Masopust che aveva aperto lo «score» al 14′.

E fu ancora il «garoto» del Botafogo al 24′ della ripresa a mettere sulla testa di Zito la palla del definitivo vantaggio «auriverde». E con il pubblico di parte brasiliana festante sugli spalti (60.000 spettatori) Vavà mise in rete la palla del 3-1 e con i brasiliani in trionfo si concluse la Coppa del Mondo cilena, forse la più povera di motivi tecnici di autentico rilievo, illuminata solo a sprazzi dalle capacità funamboliche dei «cariocas» e ricordata più per il minaccioso affiorare del gioco violento e intimidatorio che per gli spettacoli che avevano caratterizzato le edizioni precedenti.