a cura della Redazione Spazio Interattivo


Assenti grandi nazionali come Inghilterra, Uruguay, Austria e Argentina toccò ai brasiliani, in semifinale, il compito di rompere lo strapotere italiano. Ma i sudamericani schierando le riserve spalancarono all’Italia le porte della finale.

Difficoltà consistenti incontrarono gli azzurri partiti nel mondiale con i favori del pronostico, in virtù del titolo conquistato a Roma, della vittoria alle Olimpiadi di Berlino, e dall’imbattibilità che durava dal 4 Novembre 1935 protrattasi per 18 incontri. Lo scetticismo che aveva accolto la validità tecnica della vittoria di Roma era stato cancellato dalle continue vittorie azzurre, dalle imprese di una squadra che pur ricostruita per otto/undicesimi aveva confermato la buona levatura del vivaio italiano. La Norvegia non era accreditata di grandi possibilità, ma giocava un calcio matrice inglese, veloce, solido, in virtù di una prestanza atletica piuttosto consistente. Sulla fascia sinistra schierava un lungagnone ventiseienne, scuro di capelli, veloce e rapido nei tiro a rete: Arne Brustad del Lynn di Oslo, che già si era fatto ammirare alle Olimpiadi di Berlino dove aveva segnato 5 gol in 3 partite.

I norvegesi marcavano da presso i nostri, giocavano d’anticipo ed entrati in possesso di palla scagliavano fiondate a pelo d’erba sulle fasce laterali dove le ali erano prontissime allo scatto. In tal modo i mediani azzurri Serantoni e Locatelli, che erano deputati al marcamento delle ali furono costretti a tamponare e quindi a limitare il rifornimento all’attacco e tutta la manovra subì danni i irreparabili. Gli azzurri, passati in vantaggio in apertura con Pietro Ferraris che spedì in rete una corta respinta del portiere, successiva ad un tiro di Ferrari, furono raggiunti in chiusura da Brustad. Un paio di minuti dopo il norvegese ripeté l’impresa ma fortunatamente Beranek annullò per fuorigioco. Si resero necessari i supplementari e fu Piola a fissare il vantaggio dei nostri sul 2-1 racco-gliendo una corta respinta del portiere su tiro di Pasinati. Con Olivieri migliore in campo per le formidabili parate sui tiri degli insidiosi norvegesi, l’Italia aveva superato gli ottavi grazie al valore dei singoli.

Gli azzurri erano scesi in campo così allineati: Olivieri; Monzeglio Rava; Serantoni Andreolo Locatelli; Pasinati Meazza Piola Ferrari Ferraris II. I reduci del ’34 erano Eraldo Monzeglio alla sua ultima apparizione in azzurro, Peppin Meazza e Gioanin Ferrari. Nella costruzione della squadra Pozzo si era attenuto al canovaccio conosciuto. Gli ultimi anni trenta coincisero con il periodo di massimo splendore del metodo, il vivaio produceva autentici campioni, e sfruttando al massimo queste componenti positive Pozzo riuscì a plasmare un capolavoro di razionalità. Una squadra fortissima sul piano tecnico, atleticamente preparata, ricca di individualità di grande prestigio come Meazza e Ferrari che erano fra i migliori d’Europa, Silvio Piola centravanti acrobatico dal tiro folgorante, capace di colpire al volo e scaraventare in rete qualsiasi palla, e poi Andreolo, di scuola uruguagia, meno potente di Monti ma più mobile e agile, efficace nel gioco aereo e nel rilancio. Fra i pali Olivieri, un grande portiere che nella partita con la Norvegia salvò da solo una squadra che sembrava destinata al naufragio. E con Monzeglio giunto al passo d’addio erano pronti Foni e Rava, i terzini di Berlino, l’uno classico e temporeggiatore come lo era stato Rosetta, l’altro atletico e potente, forte di testa. Ai lati di Andreolo c’erano l’instancabile Serantoni e l’elegante Locatelli e sulla fasce, deputate al cross per l’ariete Piola, Pasinati e Ferraris II nell’incontro con la Norvegia ed in seguito l’eclettico Biavati ed il guizzante Colaussi.

Sulla strada degli azzurri si stagliava ora una Francia ambiziosa, caricata dalla facile vittoria sul Belgio e confermata con: Di Lorto; Mattler Cazenave; Bastien Jordan Diagne; Aston Heisserer J. Nicolas Delfour e Veinante. Italiani nella formazione che giocherà tutti gli incontri rimanenti: Olivieri; Foni Rava; Serantoni Andreolo Locatelli; Biavati Meazza; Piola Ferrari e Colaussi. C’era il «tout Paris» sugli spalti, 60.000 spettatori e la rappresentanza italiana era piuttosto esigua, arbitro il belga Baert che alle cinque precise diede il via alle ostilità. Sette mesi prima, stesso teatro, Laurent Di Lorto era stato l’eroe di un pareggio a reti bianche che aveva fermato i lanciatissimi azzurri. Ma il clima di Coppa ha forse intaccato la sua sicurezza e al 9′ si fa infilare da una innocua centrata di Colaussi. Non passa un minuto ed Heisserer incredibilmente libero in area italiana può agevolmente battere Olivieri. Dieci minuti, due gol, latente nervosismo in campo con i transalpini che accelerano il ritmo del gioco e gli azzurri che pagano forse lo «stress» dell’incontro con la Norvegia. Ma il gioco di Veinante ed Heisserer, troppo rapido, crea confusione nelle file dei «galli» che premono senza efficacia nel mentre Andreolo e Meazza crescono di tono e cominciano a dominare il centrocampo. L’oriundo riporta calma e razionalità, lucidità e precisione.

Meazza arma il controgioco e quando gli azzurri rientrano in campo per la ripresa la superiorità dei nostri si trasforma subito in cifra. Azione a schema classico di quella grande squadra; è il 6′, Ferrari lancia sulla destra verso Biavati, fuga veloce dell’ala e centro a mezz’altezza. Irrompe in corsa Piola e di destro al volo infilza imparabilmente Di Lorto. 27′: trama azzurra Piola-Colaussi-Biavati, veloce sgroppata dell’ala e centro basso che Piola colpisce in tuffo di testa battendo imparabilmente il portiere transalpino. Vittoria netta e meritata e ritrovata efficienza della squadra che attende ora con interesse il risultato dell’incontro fra il temutissimo Brasile e la Cecoslovacchia.

Italia e Ungheria nuovamente di fronte. Una sfida che si ripeteva da anni, una classica del calcio centro-europeo. Da quella famosa partita di Budapest dell’11 maggio 1930 quando gli azzurri andarono a conquistare la Coppa Inter-nazionale e Meazza attinse le vette della celebrità europea, i magiari erano riusciti a pareggiare due sole volte perdendo i rimanenti incontri sia a Budapest che in Italia. Ma ora guardavano alla finalissima con una certa fiducia in virtù delle individualità di spicco che caratterizzavano ogni reparto della squadra. Gyula Lazar, grande laterale idolo delle folle ungheresi, Zsengeller tecnico e opportunista, e soprattutto Giorgio Sarosi, centravanti, erede diretto di Schaffer, Schlosser e Orth, gli antichi condottieri del passato, infondevano fiducia a Karol Dietz, ai tifosi magiari e anche agli sportivi cosiddetti neutrali che mal sopportavano le imprese degli azzurri e lo avevano dimostrato ad ogni occasione.

Questa barriera di impopolarità dovuta principalmente a ragioni politiche, circondava gli italiani dall’inizio della manifestazione e Vittorio Pozzo abile psicologo seppe approfittare della situazione con la dovuta misura solleticando l’orgoglio di ognuno. Le squadre scesero in campo al meglio della loro inquadratura: azzurri al completo nella medesima formazione che già aveva affrontato Francia e Brasile, magiari con: Szabo; Polgar Biro; Szalay Szucs Lazar; Sas Vincze Sarosi Zsengeller Titkos. Arbitrava il francese Capdeville davanti a quasi sessantamila spettatori accorsi al Parco dei Principi il 19 giugno 1938.

La partita si svolse nei canoni caratteristici delle due scuole. Ungheresi subito in avanti con trame fitte ed eleganti, ma già al 6′ la manovra azzurra apre ampi squarci nella difesa granata. Andreolo interviene su un corner dei magiari ed allunga sulla fascia destra a Serantoni, che fa viaggiare Biavati. Rincorsa e centro per Piola che fa proseguire la palla verso Colaussi. Il triestino irrompe in velocità e scaraventa in rete. Gioco di prima in velocità, tre passaggi e gol. Sembra facile… Un minuto più tardi pareggiano i magiari con Titkos. Il tiro incrociato dell’ala inganna Olivieri e termina in rete. Gli azzurri riprendono le fila del gioco senza tentennamenti e dopo aver colpito i legni Piola raccoglie un magico allungo di Meazza e batte imparabilmente Szabo. Ancora Meazza al 35′ fa viaggiare Colaussi sulla sinistra: breve rincorsa, diagonale incrociato e gol.

Nei venti minuti fra le due segnature azzurre i danubiani hanno attaccato generosamente, ma la difesa orchestrata da Andreolo ha ristretto gli spazi, Sarosi e C. conservavano la palla, ma erano costretti a lunghi fraseggi inefficaci sulla trequarti azzurra. Era fatta per i nostri. Al 70′ Sarosi concluse a rete una manovra Titkos-Zsengeller riaprendo il cuore alle speranze ungheresi, ma ai nostri bastò un sussulto per ristabilire le distanze. Ferrari a Biavati, centrata bassa, Piola al volo in velocità. Gol: 4-2.

E’ il trionfo, la folla piegata dalla superiorità italiana, scioglie finalmente un lungo applauso che sanziona i meriti di una grande squadra. Una squadra che ha avuto in Meazza e Andreolo gli architetti sublimi della vittoria, in Ferrari il lavoratore inesauribile. Ogni reparto era composto da autentici campioni. Alfredo Foni e Pietro Rava difensori perfetti, efficaci in ogni frangente del gioco, Serantoni instancabile rifornitore e marcatore attento e deciso, Locatelli elegante e tecnico. In avanti un trio caratterizzato dai cambi di velocità di Biavati e dalla potenza di Colaussi, ma soprattutto dalla grande energia di Silvio Piola, formidabile cacciatore di reti, abile in acrobazia, dalla falcata imperiosa e dal tiro folgorante. Zsengeller non aveva segnato nella finalissima, la corona di massimo goleador finì sulla testa di Leonidas da Silva, che con la doppietta inflitta alla Svezia nella finale per il terzo posto (3-1) operò il sorpasso definitivo nei confronti dell’ungherese.